Ci sono in orchestra episodi di suoni tenuti delicatissimi, in acuto, trasparenti di luce un po’ vitrea. Le parti migliori di tutta l’opera. Ci sono, ancora in orchestra, episodi assai coloristici, i legni in primo piano, di sapore impressionistico, piuttosto da soundtrack. Ma tutta l’orchestra in realtà è impegnata, con scrittura di alto livello, a suonare didascalie sonore al canto, anzi all’azione cantata, alla vicenda cantata. Written on skin di George Benjamin è questo. Si pone per l’ennesima volta la questione – anzi la tragedia – della forma melodramma. E qui in modo molto marcato: tutta l’opera nel suo senso musicale altro non è che illustrazione e drammatizzazione, puntuale, narrativa alla vecchia maniera, di un testo.
Written on skin in versione da concerto inaugura la Biennale Musica 2019 al Teatro Goldoni. Benjamin, inglese, cinquantanovenne, già famoso da giovanissimo, riceve per la carriera il Leone d’oro. Cerimonia sbrigativa come sempre quando si tratta di musica, lui ringrazia leggendo poche righe in italiano, è cordiale, affabile e autorevole. Questa sua opera dal punto di vista musicale è il canto. Di un baritono, il formidabile – potente e finissimo – Christopher Purves, che interpreta il personaggio del Protector. Di Georgia Jarman, soprano, che è Agnès, non sempre sicura ma ha parti impervie, molto recitato nevrotico e pochi sovracuti melodiosi splendidissimi. Del controtenore James Hall (The Boy e l’Angelo n. 1), inappuntabile e anche accademico. Di Victoria Simmonds (Marie, l’Angelo n. 2), soprano, e di Robert Murray (John, l’Angelo n. 3) tutti e due corretti.

È IL CANTO scenico quest’opera. Accompagnato, sottolineato, introdotto descrittivamente da un’orchestra – nell’occasione quella Sinfonica Nazionale della Rai diretta senza infamia e senza lode da Clemens Schuldt – che ha un ruolo servile. Che tipo di canto? Il più tradizionale che un compositore moderno, relativamente giovane, possa concepire. Di contemporaneo nel senso pieno, dinamico, dissidente, aperto, innovativo che in tanti hanno cercato di tratteggiare, gli Agamben e Boulez che il direttore artistico della Bm Ivan Fedele evoca nella sua introduzione al catalogo, non c’è niente. Da sempre in felice equilibrio tra atonalismo e tonalismo, con i suoi trascorsi spettralisti ormai dimenticati a favore di un neo-impressionismo eclettico, Benjamin adotta questa volta il canto del melodramma in piena regola. Squisiti sono certi duetti madrigaleschi, poi tanti recitativi melodizzanti.

IL TESTO è del drammaturgo inglese Martin Crimp. Lo ha ricavato da una storia leggendaria del XIII secolo che riguarda il trovatore Guillem De Cabestany. Il quale viene invitato dal Protector, un ricco possidente di terre che ogni tanto si accanisce contro i contadini bruciando i loro villaggi, a scrivere un trattato celebrativo della sua famiglia. Il Boy, come viene chiamato nella storia, incontra Agnès, moglie del Protector (che è anche misogino violento possessivo), e i due si amano. Il Protector scopre il flirt, uccide il Boy, gli strappa il cuore, lo cuoce e obbliga Agnès a mangiarlo. Lei, ignara, lo trova un piatto prelibato e dopo che il marito le svela di che cosa si tratta continua a dire, con coraggio sensuale e fierezza femminista, che nessuno le potrà togliere il piacere la meraviglia l’incanto di quel cuore. Poi si butta dalla finestra. Testo politico progressista senza dubbio. Il successo dell’opera dopo la prima del 2012 a Aix-en-Provence è certo dovuto anche a questo aspetto. Ma il problema, estetico e politico, dell’improponibilità del melodramma rimane.