Ancora una volta è il m.a.x. museo di Chiasso ad arrivare primo per celebrare uno dei nostri più famosi designer: Achille Castiglioni. Nel centenario della nascita la direttrice Nicoletta Ossanna Cavadini ha pensato bene di chiamare Ico Migliore, Mara Servetto e Italo Lupi a curare insieme con lei un’esposizione che negli spazi esatti del museo non è solo il racconto dell’intensa stagione di invenzioni, tra oggetti, arredamenti, stand e allestimenti, di Achille (in coppia con il fratello Pier Giacomo fino al 1968), ma il tentativo di comunicare il suo mondo delle cose e delle idee: una mise en scène della sua maniera di pensare e di agire. Questo esperimento empatico aderente con il linguaggio del «visionario» Castiglioni – titolo della mostra, Achille Castiglioni (1918-2002) visionario L’alfabeto allestitivo di un designer regista, fino al 23 settembre – è perfettamente riuscito. Le sale allestite con misura sembrano quasi la naturale appendice del suo studio milanese (oggi sede della fondazione a suo nome) non foss’altro per le citazioni che da lì provengono dello specchio messo a parete obliquo o la scelta di usare scaffalature e tavoli industriali per sistemare oggetti e documenti nel fluido percorso espositivo.
Ispirati, forse, dall’annotazione di Castiglioni scritta per la sua mostra a Vienna del 1984, anche i curatori non hanno voluto realizzare «una normale mostra di “design”». Anche per loro, le quattro sezioni non seguono «un preciso ordine cronologico» e la ricerca progettuale del designer milanese si snoda bene nei suoi rapporti con l’arte, l’innovazione tecnologica e l’ambiente. In particolare si è voluto privilegiare il ruolo assunto dalle numerose e multiformi manifestazioni fieristiche o culturali, quelle che Castiglioni definiva «allestimenti particolari»: momenti unici dove afferrare «in modo critico-caricaturale le valenze della progettazione, quelle della produzione o quelle della fruizione». Avere intuito l’importanza del rapporto del prodotto industriale con i molteplici aspetti della pubblicità, della comunicazione e del consumo ha significato per i curatori – ma lo è stato anche per Castiglioni – misurarsi con l’immanenza e le antinomie della serialità industriale: cosa non così scontata con l’attuale consumo edonistico e superficiale del design.
Sensibile ai temi dell’«antica arte di esporre», come ha ben scritto Lupi in catalogo (Skira), Castiglioni ha saputo «reinventare» con originalità e disciplina una pratica progettuale tradizionale dell’architettura moderna italiana avvalendosi innanzitutto di designer grafici raffinatissimi come Giancarlo Iliprandi, Pino Tovaglia, Erberto Carboni, Heinz Waibl, Michele Provinciali, Aoi Kono moglie di Max Huber, il preferito «compagno ideale di gioco e affetto» di Achille, ma anche di artisti-designer come Grazia Varisco, Enzo Mari o Fulvio Bianconi. Con loro e con Pier Giacomo, tra il 1949 e il 1968, Achille progetta gli stand alla Fiera di Milano della Rai, Montecatini e ENI, e poi negli anni novanta, ormai da solo, quelli della Bticino-Intel e molti altri. Ogni primavera l’appuntamento fieristico meneghino è «una specie di Esposizione Universale in sedicesimo» (Gianni Biondillo).
Nel corso della sua prolifica attività Castiglioni realizza 484 allestimenti e non solo per i suoi clienti dell’industria. Indimenticabili sono quelli dedicati a mostre d’arte o di architettura. A Chiasso troviamo gli schizzi e i disegni originali di mostre celebri: L’Altra metà dell’Avanguardia a Palazzo Reale di Milano (1980) o I Musei di J. Stirlin e M. Wilford alla Fiera di Bologna (1990). In ogni occasione sperimenta inediti effetti spaziali: con aste giganti sulle scale al Museo Correr per Le Corbusier pittore e scultore (1986), con spessi piani orientati a ventaglio a Wolfsburg per Fernand Legér (1994) o inclinati a Mantova, alle Fruttiere di Palazzo Te, per Alvar Aalto (1998).
È però nell’illuminotecnica che Castiglioni non ha rivali. Lo testimoniano i monumentali corpi circolari sospesi in tela elasticizzata nella Sezione Industrial Design alla X Triennale (1954), poi trasformati in quadrati alla mostra Dal design all’habitat (Bari, 1980), o ancora il «disco volante» in tensostruttura radiale e materiale plastico che contiene nel 1967 una mostra itinerante della Rai. La luce artificiale è investigata a ogni scala: elemento qualificante lo spazio pubblico, espositivo, urbano e ovviamente domestico. Per Flos, in tre decenni a iniziare dagli anni sessanta, Castiglioni disegna per la casa ogni genere di lampada: quelle per eleganti soggiorni (Arco, Toio, Taraxacum), da tavolo (Gibigiana, Ipotenusa, Taccia), da parete (Giovi, Moni, Parter), da terra (Papavero), sospese (Fucsia), saliscendi (Parentesi).
Oltre, però, agli apparecchi illuminanti Achille si dedica al disegno di mobili e arredi (Zanotta, Up&Up, De Padova), servizi da tavola (Alessi, Richard Ginori), elettrodomestici (Brionvega). Sarebbe quasi impossibile incontrare tutti i pezzi da lui progettati in una mostra e non così necessario. All’occorrenza c’è sempre la completa monografia di Sergio Polano che, datata 2001, è ora stata rieditata da Electa. Su un aspetto, però, la mostra ha un particolare merito: l’avere posto al centro il nodo centrale del rapporto (modificato) forma-funzione fondante le teorie e le pratiche dell’industrial design. Castiglioni ha consapevolezza che non ci sono più margini per sostenere la classica relazione industria e etica normativa del design.
Condivide appieno le parole di Max Bill che «siamo tornati al punto zero». A suo modo sposa la tesi della Gute Form dell’artista-architetto svizzero sulla necessità di strategie formali nella costruzione dell’oggetto o nell’arredo. Entrambi questi ultimi, dirà Castiglioni, «si concretizzano in una forma espressiva della funzione», la sola a debellare la temporalità della moda. «La forma, che bella funzione» è l’aforisma che sottende la destrutturazione ironica e intuitiva del manufatto, anche il più semplice, ricomposto secondo altre leggi per sue nuove possibilità d’uso. Ne è un esempio il più noto «oggetto in chiave di ready-made duchampiano» (Cavadini) qual è lo sgabello Mezzadro (1957). Altrettanto orientati alla bellezza come funzione sono gli oggetti «anonimi», considerati alla pari di archetipi industriali, come il sedile da giardino Allunaggio (1966) o l’interruttore Rompitratta (1968). Scrisse Bill con disincanto alla fine degli anni ottanta che ormai la «funzione del design va dalla promozione delle vendite al ruolo di puro trucco pubblicitario». Achille è stato accorto a difendere con rigore e semplicità il progetto affinché non si riducesse a poveri artifici di consumo.