La Fondazione Corrente di Milano ospita, per la cura di Jacopo Muzio e Deianira Amico e fino al 16 aprile, il dittico espositivo di Velasco Vitali Foresta Rossa/Città Abbandonata. Uno dei corni che si diramano dalla mostra accadrà il 10 aprile prossimo, giorno in cui alle ore 18 l’artista presenterà con alcuni critici e scrittori Foresta Rossa, la monografia curata da Luca Molinari per le edizioni Skira.

L’occasione detta una conversazione con Velasco; i toni sono amicali e sovrabbondano di argute ironie. Gli argomenti sollevati sono scottanti, interessano il mondo dell’arte, ma irradiano diversi corni, appunto, dell’attività intellettuale e artistica del pittore di Bellano – «mi piace pittore, anche quando scolpisco», Velasco tiene a cuore la «professione» come altri mai – la critica, l’architettura e l’urbanistica, le relazioni umane, il lavorare sulle cose e i loro nomi, la sperimentazione mai fine a se stessa e che non è preceduta dall’avanguardia, lo studio attento e riflessivo sulla tradizione e non solo italiana, l’osservazione dei maestri del passato anche lontani, forse, dall’attuale sentire contemporaneo. «Velasquez è il pittore a cui guardo sempre. È l’artista più concettuale di ogni epoca. La sua agudeza è raffinata e allo stesso tempo futuristica».

È quella inattualità, quello spostarsi sempre in un’altra posizione per scrutare il mondo e le sue verità. È la lezione del suo primo mentore, Giovanni Testori, che nel 1984 lo contò nella celebre mostra milanese della Rotonda della Besana, Artisti e Scrittori. «A un certo punto ho lasciato perdere Testori, ma non il suo insegnamento che è stato quello di andare sempre a scovare la verità, anche se poi questa è in un altro posto. Si tratta di scegliere la posizione da cui guardare a fondo la verità delle cose e delle questioni».

Rimbalza già sul tavolo uno degli argomenti più importanti e scomodi dell’arte: il guardarsi indietro e cosa scoprire di nuovo nel lavoro realizzato. Il voltarsi ed essere «turbati dalla inorganicità, meglio dalla disorganicità di ciò che avevo fatto». «Solo dopo ho capito che la mia trentennale attività era contrassegnata proprio da questa cifra stilistica, dunque il mio percorso aveva una sua linearità». «D’altronde, il mio guardare al paesaggio, entrarvi in contatto può anche apparire romantico, ma non è così perché ho consapevolezza della distanza e del senso panico che esso ha e comunque riesce a conservare anche dopo la rappresentazione artistica».

Un metodo adottato anche nelle raffigurazioni urbane e metropolitane? «Il mio sguardo metropolitano è panoramico, dai tetti osservo come fosse una cartolina l’urbanizzazione dei luoghi, le strade, gli edifici; in seguito metto a fuoco particolari che davanti a me si scompongono e ricompongono in un codice che sta a me riproporre nella suo dispiegarsi storico». «Ad esempio un grattacielo può avere un piano in più, in certo qual modo cerco di tradurre la stratificazione storica delle edificazioni di una città rendendo le mie pennellate imprevedibili e in movimento».

Il principio è la registrazione delle immagini e l’uso della fotografia. «Sì, ma poi la foto resta una traccia, appunto morfologico, la memoria è il disegno che è la base sulla quale prende forma la pittura». Qui si scopre il Velasco affine più agli architetti che ai suoi pari. «Dialogo più con gli urbanisti, gli architetti che con gli artisti. Ho un’indole piuttosto individualistica, solo tra la folla non sto male, e allo stesso tempo uso massicciamente i social media per informare e comunicare; la mia stessa pittura è gradita ad architetti come Michele De Lucchi: progetti come Città Abbandonata – ne abbiamo mappate più di cinquecento – sono un fatto simbolico e metaforico, una sorta di fantasia applicata alla realtà che è specchio del mio essere artista e persona ragionante, per questo detesto la banale artigianalità di alcuni colleghi che semplificano e replicano la realtà». C’entra la critica? «Mi piace l’artista che ha coscienza di sé e di ciò che fa; la mediazione critica che apprezzo è quella che riesce ad entrare nelle questioni cruciali e a stanare l’artista».