Di che cosa parliamo quando ci riferiamo alla Rivoluzione francese? Quali sono i fattori maggiormente significativi e, soprattutto, qual è l’ordine del discorso al quale ci rifacciamo nel momento in cui evochiamo l’elemento periodizzante per eccellenza nella storia europea, e non solo, almeno in questi ultimi due secoli? La produzione storiografica (quella che si occupa non solo dei fatti ma del modo in cui li si racconta) ha raggiunto nel corso del tempo livelli sorprendenti di conoscenza ma anche esiti tra di loro molto diversi, se non a volte in aperto contrasto. Le note e le tonalità si differenziano di molto a seconda che si pongano maggiormente in rilievo gli aspetti sociali, quelli politici, quelli di taglio culturale e ideologico, gli elementi economici e così via. La sintesi tra questi diversi piani risulta ancora disagevole poiché discordanti possono risultare gli usi delle fonti disponibili, la loro intersecazione, la riconduzione ad una dimensione unitaria di lettura. Un affanno, quest’ultimo, a tratti quasi pericoloso.
Quel che è certo, tuttavia, è che i fatti che si consumarono essenzialmente tra il 1789 e il 1793, precipitando e mischiandosi in una sorta di acceleratore di particelle elementari, sono intesi dai più come la matrice di un cambiamento radicale, non solo sul versante della politica ma anche dei costumi, delle identità collettive, delle stesse relazioni interpersonali, in Francia come nell’intera Europa. Dall’ordinamento per «Stati», ossia per comunità e corporazioni, si transitò all’organizzazione sociale che conosciamo, fondata sulla cittadinanza giuridica, sulla propensione all’eguaglianza sociale, sull’attivismo del «citoyen», sulla dialettica aperta, ovvero conflittuale, tra poteri costituiti e collettività.

L’accelerazione del tempo

Il rivolgimento dell’Ancien Régime non si risolse solo con la decadenza delle istituzioni che ne avevano garantito la lunga durata ma inaugurò l’età della partecipazione delle masse ai processi decisionali e, insieme ad essa, la questione cruciale ed imprescindibile del consenso. La quale, per inciso, investe da allora in poi gli stati democratici come quelli autoritari, il liberalismo così come il socialismo, il populismo del pari alle altre forme di organizzazione della rappresentanza.

Il tema della Rivoluzione francese, quindi, fuoriesce dalla dimensione strettamente cronologica alla quale parrebbe altrimenti essere consegnato, così come dalla sua stessa natura intrinsecamente politica, per divenire indice più generale della nozione di mutamento permanente nell’età contemporanea, comunque lo si intenda affrontare.

I fatti francesi, da questo punto di vista, segnano l’irruzione della storia, intesa come processo di radicale accelerazione della nozione stessa di tempo collettivamente condiviso. Da quel momento ogni soggetto è parte individuale in un processo generale di costruzione della storia a venire. Lo sguardo è rivolto al futuro, alle cose da mutare piuttosto che alla preservazione degli equilibri preesistenti. La saldatura tra conflitto, partecipazione diffusa, rottura e ricomposizione in equilibri più avanzati, rifonda quindi il campo della politica alle sue radici. Per più aspetti lo genera ex novo, esercitando un esproprio non solo delle prerogative regali e nobiliari ma dichiarando la decadenza della sovranità come esercizio autoreferenziato. Non di meno, il rapporto tra l’elaborazione intellettuale di alcune élite e il suo riversamento sulla costruzione di identità collettive, è un altro fattore che crea un ambito, quello dell’informazione, che diventa strategico nella costruzione di coalizioni e alleanze di potere.

In poche parole, il 1789 segna una frattura rivoluzionaria poiché è la conclusione di un tempo e l’avvento di una nuova era nella definizione dei processi di coesione sociale. Due libri, di recente traduzione in italiano, ci aiutano a mantenere aperto il dossier relativo alle interpretazioni di quel passato. Il primo di essi ci è consegnato da Haim Burstin, docente di storia moderna all’Università Milano-Bicocca. Specialista di lungo corso dell’argomento, con il suo Rivoluzionari. Antropologia politica della Rivoluzione francese (Laterza, pp. 317, euro 25) si adopera in una vera e propria ricostruzione di campo, esercitandosi non sui fatti bensì riguardo ai protagonisti. Non quelli maggiormente noti e «specchiati» bensì la grande massa di compartecipi, folle e astanti, tanto numerose le prime così come i secondi quanto destinate le une e gli altri a rimanere anonimi se non per il tramite delle leadership il cui nome è a tutt’oggi invece ben ricordato.

Il secondo volume è l’opera enciclopedica di Jonathan Israel su La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre (Einaudi, pp. 960, euro 42. Su questo saggio, soffermandosi sulle genealogie illuministe della Rivoluzione francese, ha scritto Francesco Benigno su «Alias della domenica» del 24/1/2016). Il sottotitolo dice già molto dell’impianto del testo. Israel, anch’egli titolare di una cattedra di storia moderna, ma all’Institute for Advanced Study di Princeton, non tradisce le aspettative di un certo tipo di lettore, ripetendosi in un canone, quello dell’interpretazione onnicomprensiva, capace di stabilire nessi diretti e incontrovertibili di causalità, con la quale intende definire una volta per sempre le radici della frattura rivoluzionaria.

Comuni denominatori

Quest’ultima, detto per inciso, è ricondotta per parte dell’autore, all’incidenza del radicalismo intellettuale di derivazione illuminista. La vera peculiarità nella riflessione che lo studioso va facendo da molti anni, già esposta in altre opere come Una rivoluzione della mente, uscita in Italia un lustro fa, è il presupposto di cumulatività innovativa che egli attribuisce al novero delle posizioni materialiste, repubblicane, ateiste che avrebbero investito e informato, senza soluzioni di continuità, i gruppi dirigenti rivoluzionari. Il libro che ci presenta, editato nella sua versione originale solo due anni fa, è un impressionante repertorio di storia delle idee laddove, calandosi negli infiniti rivoli delle discussioni in corso in quegli anni decisivi, cerca di trovare comuni denominatori.

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La prospettiva di Israel, da questo punto di vista, è esattamente opposta, ancorché non necessariamente antitetica, a quella di Burstin. Diversi, infatti, sono i campi di applicazione anche se il discorso converge, tra i due autori, sul piano dell’interrogazione in merito alla razionalità del processo rivoluzionario. Se il secondo si avventura nella complessa ma spesso fragile intelaiatura che istituisce le figure della rivoluzione, addentrandosi nei meandri della mobilitazione, della partecipazione, dell’identificazione, laddove ognuna d’esse è contraddistinta da tratti di continuità ma anche di accentuata discontinuità, poiché il caso fa la sua parte così come il calcolo, per il primo, invece, è capitale la questione della discendenza intellettuale, soprattutto sul versante girondino. A rischio di stabilire nessi quasi deterministici, dividendo, ad esempio, con un esercizio non sempre facilmente condivisibile, la «rivoluzione buona» (quella universalista e cosmopolita delle libertà civili, del progresso sociale, della cittadinanza condivisa e così via) dalla «rivoluzione cattiva», quella che sfocia nel Terrore.

Rispetto a Haim Burstin, Jonathan Israel sembra quindi preoccuparsi molto di meno dell’imponente riflessione storiografica che è venuta offrendosi in questi due secoli, soffermandosi semmai su una rilettura che cerca di agganciare al presente il lascito rivoluzionario, declinato nel senso della sua attualità rispetto alle politiche di intervento attivo nelle situazioni di decadenza dei diritti. Così per quanto riguarda il giudizio sull’interventismo repubblicano e poi napoleonico, ovvero il convincimento, che sarebbe poi stato ripreso da altri, che una radice della rivoluzione sta nella sua «esportabilità» a differenti contesti. Argomentazione, quest’ultima, fortemente sillogistica, che autoconvalida la necessità storica dei percorsi rivoluzionari rigenerandoli nel bisogno di alimentarsi attraverso il doppio nesso tra emergenza persistente e diffusione permanente.

Per Burstin, invece, il fuoco della riflessione è costituito dal formarsi di un campo politico che coincide con la sfera pubblica. La politicizzazione delle relazioni sociali è il vero nodo del processo rivoluzionario e chiama in causa il modellarsi, attraverso il protagonismo sociale di una pluralità di soggetti, della figura del cittadino come portatore attivo di mutamento.

Pensieri virali

L’influenza del dibattito intellettuale è colta essenzialmente nei suoi effetti «virali». Più che per una pur significativa questione di contenuti (l’autore sembra avvertirci che le idee non vivono da sé) è il tessuto diffuso sul quale le suggestioni intellettuali ricadono a restituircene la plausibilità nonché la funzionalità operativa. Qualcuno vorrà in ciò vedere riflessa la vecchia e stanca dialettica tra strutture e sovrastruttura ma Burstin sfugge a tentazioni di tale genere, interrogandosi semmai sulla questione, assai poco dibattuta oggi, del rapporto tra identità collettive e ricorso alla forza. Un’antropologia rivoluzionaria non può infatti non interrogarsi sul ricorso alla violenza come problema ma anche in quanto risorsa.

Nella rottura del paradigma del suo monopolio statale l’autore identifica uno dei nuclei della moderna cittadinanza. Non la suggestione del «popolo in armi», destinata ad essere velocemente smentita nei fatti, ma la nozione di solidarietà attraverso la reciprocità militante sta alla base della piramide ribaltata, così come della «scalata al cielo», che il Terzo Stato costruisce tumultuosamente, rompendo l’ordine costituito per definirsi come soggetto costituente.

Burstin ed Israel adottano quindi due prospettive diverse, non complementari. Il primo sembra essere maggiormente consapevole della necessità di riportare al centro della riflessione intellettuale i fattori sociali delle grandi fratture storiche, mentre il secondo ribadisce l’autonomia della sfera culturale nella determinazione dei percorsi della «moderna civiltà occidentale». La percezione che il lettore avvertito nutre, alla conclusione della lettura dei due libri, è che dinanzi a tale illustri esercizi di comprensione erudita, la discussione pubblica sul mutamento e la transizione sia scaduta di molto. Ma questo è già un altro capitolo di storia, ovvero la nostra, contrassegnata dal recesso e dalla defezione prima ancora che dal regresso.