Jefferson Reporter», «Tuscaloosa Leader», «Last Frontier News», «Bridgeport Times», «Miami Courant»… I nomi profumano di piccolo testate locali. Quelle che – per esempio in una pandemia – svolgono un ruolo importante sia come punto di aggregazione che di informazione nella vita di una comunità. Quelle – come il «Sag Harbor Express» – su cui, ancora oggi, in molti piccoli centri americani (Sag Harbor è un vecchio paese di balenieri all’estremità est di Long Island) si dà spazio alla battaglia per salvare dalla speculazione edilizia un parco lungomare, ricostruire un cinema, riesaminare il piano regolatore, conoscere chi si candiderà a sindaco…

Ma, diversamente dal «Sag Harbor Express», i «Courant», «Times», «News» e «Leader» di sopra non sono giornali locali bensì siti internet, i cui contenuti sono centralizzati in un network e spesso «ordinati» ad hoc da gruppi conservatori e uffici stampa corporate. L’inchiesta del «New York Times» -in collaborazione con la Columbia University e il Global Disinformation Index- pubblicata qualche giorno fa, svela un nuovo aspetto dell’era delle fake news. Penalizzate dalla fuga degli inserzionisti verso la rete, e accorpate dalla deregulation, le stazioni televisive locali da decenni rinfoltiscono i loro tg di infomercials spesso non di chiarissima provenienza. Lo stesso succede per i piccoli giornali che – le redazioni ridotte all’osso – si aiutano con il copia e incolla per riempire le pagine. Ma i circa 1.300 siti di cui l’inchiesta del «Times» dà conto sono una cosa diversa: creati appositamente per diffondere non news ma propaganda specifica. Il network in questione, articolato in compagnie diverse, comprende 1000 siti di news locali sotto un ombrello di nome Metric Media, oltre 50 siti di notizie a carattere finanziario, 34 siti, in Illinois, sotto l’ombrello Government Information Services e 11 siti di informazione a sfondo legale che fanno capo a un ramo della US Chamber of Commerce.

Non tutti i siti sono attivi, ma possono essere resuscitati quando c’è bisogno di intervenire «dentro» a un evento specifico, come è successo con il sedicente «Kenosha Reporter», in concomitanza con le proteste scoppiate dopo l’ennesimo abuso di forza della polizia (sette pallottole nella schiena) che ha lasciato paralizzato Jacob Blake, in Wisconsin. Sempre secondo l’inchiesta, quasi tutta questa fitta rete di (dis)informazione sarebbe stata ideata e sarebbe coordinata da un unico burattinaio, l’ex giornalista televisivo Brian Timpone, che non è certamente l’unico ad aver cercato di capitalizzare sul declino dell’informazione locale – siti «partigiani» di news locali sono sponsorizzati da entrambi i partiti.

Ma la taglia del suo network è unica, pari a più del doppio dei siti della maggiore catena di giornali degli States, la Gannett. Un altro particolare è che i suoi reporter -negli Stati Uniti e all’estero, pagati da 3 a 36 dollari per assignement- ricevono direttive non solo sulla tendenza politica delle storia ma nello specifico dei contenuti. Un pacchetto offerto da uno dei rappresentanti dell’organizzazione garantisce, per 2.000 dollari, cinque articoli e un numero illimitato di comunicati stampa, sottolineando che il potenziale cliente avrà l’opportunità di controllare parte del frutto del lavoro del giornalista. In alcuni casi è il cliente stesso ad essere il soggetto della storia. Tra il giugno e l’ottobre del 2019, il network (partito nel 2015 da una manciata di pubblicazioni rurali e suburbane dell’Illinois) è cresciuto da 300 a oltre 1.300 siti.

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