E’ trascorso poco più di mezzo secolo dalla morte di Emilio Cecchi – avvenuta a Roma nel 1967 –, e questo tempo pare persino esiguo rispetto alla distanza che separa l’oggi dalla civiltà letteraria di cui il critico, saggista e scrittore nato a Firenze nel 1884 fu insieme artefice celebrato e potente e specchio a tal punto fedele da renderlo indistinguibile da quel cielo mai tempestoso, mai screziato dalla benché minima traccia di una nuvola minacciosa, come se la Storia grande e terribile che sventagliava senza tregua i suoi colpi in ogni direzione e su ogni spazio dell’intero pianeta non ostassero per nulla – tanto per dire – a far bella la frase o piuttosto a frastornare la forma, a disturbarla, a renderla almeno un poco in difetto di politezza, un tantino scheggiata in quanto a garbo sintattico.
Anche per questo, si deve credere, l’eremo di Cecchi, per quasi un cinquantennio, a partire dagli anni dieci del Novecento, ossia dai saggi su Rudyard Kipling e sulla poesia di Giovanni Pascoli (la fase cosiddetta romantica) in avanti, tra pesci rossi, corse al trotto, vagabondaggi in Arcadia, viaggi in Messico, Americhe amare, libri nuovi e usati e aiuole di Francia, fu affollato al pari di un albergo della riviera romagnola in alta stagione – affollato, s’intende, di estimatori, di visitatori in attesa, di ospiti niente affatto ingrati. Il suo «rondismo» in definitiva mai veramente scalfito da alcunché, la «prosa d’arte» come procedura irrinunciabile e come sentimento stilistico che si voleva immacolato da ogni terrena e sintattica lordura, ecco, si rivelarono elementi vincenti e catalizzatori innanzitutto di una colossale rimozione, sua e dei suoi tantissimi lettori, un corteggio degno di un principe regnante delle lettere e del giornalismo letterario. La pace, quand’anche fosse stata assente nella concretezza della vita quotidiana, la si poteva ritrovare intatta e addirittura vergine nelle pagine di Cecchi, il quale anzi nel suo procedere (secondo Gianfranco Contini) rese se possibile sempre meno perturbata e più chiara, limpida e affinata la sua maniera, anche grazie alla sua intensa militanza sui quotidiani, «a detrimento della tensione problematica». Restò sempre in quell’esercizio, come un precipuo e strutturale dato figurativo, un diluvio di immagini esornative, di impennate liriche esorbitanti e un flusso a valanga di colori e coloriture chiamati a stupire, quasi a significare che la «curiosità» (termine utilizzato dallo stesso Contini) che lo induceva a passeggiare tra le arti fosse un alibi per restarsene chiuso dentro un labirinto fiorito, non dunque la libertà ma la sua ombra, il suo fantasma.
Non si curava di certi disguidi
Era e voleva essere, quella di Cecchi, una critica en artiste che poco si curava di certi «disguidi», come li chiamò Giacomo Debenedetti, di certe scelte, preferenze, risultanze (queste sì!) sbalorditive e senza inoltre far conto di alcune pesanti indulgenze antisemite (sul tema, in queste stesse pagine, si espresse Massimo Raffaeli). E resta da capire, a tale proposito e sebbene l’autore si affettasse a «mettere le mani avanti», quanta valenza di «doppio taglio» vi fosse nel memorabile incipit del saggio del grande critico torinese incluso in Intermezzo del 1963 che qui vale la pena di ricordare: «Quando si è finito di leggere un suo saggio, articolo, nota di critica, la prima tentazione per chi fa, all’ingrosso, lo stesso mestiere è precisamente di cambiare mestiere. O, come si diceva in tempi che Cecchi ha contribuito a correggere del vizio di confessarsi col cuore in mano, viene voglia di spezzare la penna».
Oggi, e sempre «all’ingrosso», la distanza, la lontananza di Cecchi appare palpabile e vistosa anche soltanto se misurata dalla sua assenza dagli scaffali delle librerie. Fa adesso eccezione la ristampa di Firenze (Aragno, pp. 290, euro 20,00), uscito per la prima volta presso Mondadori nel 1969 (e non nel 1966, come scrive Pietro Citati nella noticina prefatoria) come «omaggio» al saggista morto tre anni prima e alla sua città natale. Si tratta di un’antologia (per l’appunto tematica) che abbraccia un arco temporale che va dal 1926 al 1958 e i cui saggi ed elzeviri sono tratti da Qualche cosa (’43), Ritratti e profili (’57), I piaceri della pittura (’60) e, per i pezzi brevi (tutta la seconda sezione del volume), dal Corriere della Sera. Se si escludono il saggio iniziale dedicato alla «fiorentinità» e qualche rimembrante passeggiata per luoghi, strade e piazze e pietre (a partire da un curioso libro di Francesco Rodolico), si tratta in effetti e ancora di una serie di ritratti e profili – di quelli insomma che non possono mancare in una galleria da sogno – , da Giotto a fra Angelico, da Donatello a Pollaiuolo, da Lorenzo de’ Medici a Leonardo, da Guicciardini a Pontormo, da Lorenzo Magalotti, da Boccaccio a Luigi Pulci, da Agnolo Firenzuola a Francesco Carletti e a Vasari.
Essenza della fiorentinità
Perché, per Cecchi, Firenze è i suoi uomini illustri, le sue figure eminenti, i suoi grandi artisti, e tutti i personaggi qui accolti e raccontati esprimono i fiorentini e l’essenza profonda della «fiorentinità», per il suo esegeta «una coscienza architettonica dell’azione, che rifiuta le ipocrite semplificazioni moralistiche, per affissarsi soltanto, a qualsiasi costo, nella verità»; laddove l’utilizzo di termini come «azione», «verità», e altrove «civiltà» e (sua) «decadenza» (dopo l’apogeo del Quattrocento) testimonia non solo di un lungo stato e sentimento di intima orfanezza, bensì di un’antropologia culturale e linguistica, che dimostra come meglio non si potrebbe la «sostanziale estraneità al Novecento» di Cecchi – come scrisse Luigi Baldacci in un articolo del 1983, nel quale si poneva quella che già allora era la questione cruciale: «Ciò che Debenedetti ha capito e ci ha fatto capire di Svevo o di Tozzi, di Proust o di Saba, rimane come un possesso stabile della nostra stessa esperienza critica: può valere per Cecchi un discorso simile? Diciamo subito che non vale e che un bilancio in tal senso risulterebbe deficitario».
Il fatto è che a Cecchi poco interessava, e forse non capiva, l’acquisizione tutta novecentesca di una soggettività complessa, divisa, dilacerata, franta, non più lineare e compatta. Lo attraeva e non lo inquietava, invece, una bellezza senza macchia e senza incrinature. Lo rassicuravano l’unità e la visione di un centro che fosse sicuro, acquisito, inalterabile e infrangibile. Nei cinque decenni circa della sua attivissima presenza, nel mondo grande e terribile (per usare due aggettivi cari ad Antonio Gramsci), accaddero molte cose. Tutto – tragedie e straordinarie acquisizioni formali –, proprio tutto gli fu coevo e gli passò accanto e nulla, proprio nulla di quelle tempeste trovò accoglienza nel suo stile di critico e di saggista. Nessuna inquietudine, nessun allarme, nessun trasalimento. Persino o forse proprio in un libro come Firenze si avverte netta una sorta di normatività schifiltosa, ad esempio quando legge gli appunti quotidiani dell’ipocondriaco, del lunatico Pontormo, diario ch’egli si affretta a definire «squallido» per quel registrare malanni e digiuni: «A mia conoscenza – sottolinea – soltanto nel Diario del Tommaseo, è portata sui fatti fisiologici e le miserie corporali un’attenzione altrettanto trita e fastidiosa». È troppo dire che Cecchi si volle conforme a un tempo cieco? Conforme e complice? E c’è da stupirsi, per dirla sempre con Baldacci, se quei «pesci rossi siano da un pezzo colati a picco»?