L’ultimo sonetto romanesco Giuseppe Gioachino Belli lo scrive il 21 febbraio 1849. Lo scorso 7 settembre ha compiuto cinquanta sette anni. È rivolto a Cristina Ferretti che di lì a poche settimane avrebbe sposato il figlio del poeta, Ciro. La informa di come sia stato colto da un potente raffreddore e sia costretto a letto e a star chiuso in casa, nell’appartamento di via Monte della Farina che Belli, vedovo, condivide da dodici anni con i cugini materni Mazio. In quei giorni preme perché Ciro e Cristina affrettino la data delle nozze. In un momento di grande subbuglio e dall’incerto futuro (la Repubblica Romana è stata proclamata pochi giorni addietro, il 9 febbraio) risultare sposato scongiura l’eventualità che Ciro sia richiamato sotto le armi. Un sonetto ‘familiare’ dunque, questo che chiude l’opera romanesca di Belli.

Qualche mese dopo egli si trasferisce dal Monte della Farina a via Cesarini, nella dimora dei novelli sposi, ove passerà il resto della sua vita e dove morirà il 21 dicembre del 1863. Si può sostenere che una dimensione ‘domestica’ traspare nei componimenti poetici degli anni della vecchiaia. Le molteplici voci della città che si accavallano fitte nelle centinaia di sonetti ora recedono, giungono attutite nella sua stanza. Non le registra Belli che tuttavia scrive, ma per corrispondere entro la cerchia degli amici letterati, a mantenere, diresti, una consuetudine dotta nel coltivare e dichiarare sentimenti e affetti.

Nelle ottave de La casa composte nel dicembre del 1858, si leggono versi dove egli indica per ciascun uomo, «fra i tanti che in mente egli si effigia», bene «di supremo valor, credo primiero/l’albergo, l’abitacolo, il ricetto,/l’asil, la casa, il domicilio, il tetto». Una disposizione, a tratti, perfino ‘casalinga’ che, pur necessitata dai molti acciacchi che la malferma salute non gli risparmia, pare tuttavia congeniale ad un suo riconoscibile stato d’animo. La casa, «dolce a ogn’uom», considera, «ma ben torna più cara e prezïosa/a un vecchiardo par mio vizzo e malescio».

Dimensione ‘domestica’, ‘casalinga’, ‘familiare’? Certo. E una poetica degli interni. All’8 dicembre di quell’anno è datata Il tetto: «io me ne sto nella mia stanza (…) tante ore e giorni e settimane/e mesi intieri», si legge e «allor cogli occhi e colla mente in aria/do corpo ad ogni larva immaginaria». Sappiamo, una sua straordinaria dote di ascolto e di osservazione Belli ha elevato ad altezze raramente, con pari sapienza e perfezione, raggiunte in poesia. Restituire apparentemente senza mediazione quanto accade d’attorno, illudendoci, quasi a nostra volta fossimo lì presenti ad udire quella voce, ad osservare questo gesto. È la meraviglia de I Sonetti. Qui, ne Il tetto, descrive come una sensazione si faccia fantasia e una percezione trapassi in immagine. Dal vecchio muro, oltre la finestra aperta della stanza, dai suoi muschi, dai cretti, dalle chiazze e dai segnacci, dice, escono «altre immagini». Ed anche i vetri, una volta chiusi, «giuocano in quella spezie di magia»: «nessun cristallo è così unito e piano/né tutti ha i lati suoi sì lisci e puri,/che qualche stria o un bernocchietto o un vano/contro la equalità non vi congiuri;/talché la luce non è maraviglia/se poi mal si rifrange/e si scompiglia.//Dei vizî ch’io notai vanno sì pieni/dunque i cristalli della mia finestra,/tanto han di solchi e bôzzerelle e seni/che la luce al passar vi si scapestra./In ghirigori e schianci e andirivieni/sparpaglia ella i suoi raggi a manca e a destra/e sopra e sotto, e fa che i visti oggetti/torcansi in mille curve e in mille aspetti».

Appaiono al poeta in folla volti disparati che si susseguono, quasi l’uno venga dall’altro a prender forma per poi mutare anch’esso: un «sorriso» succede a una «barba», una faccia «or si fa larga larga, or lunga lunga/sì che par che s’impingui o che si smunga». Ecco una monaca «col suo velo alle tempie e col soggolo», una parvenza che, dice Belli, va colta al volo prima che si muti in soldato «o alcuna più dissimile figura/sol ch’io cangi fil filo di postura». Le ottave corrono e raccontano di simulacri e fantasmi diversi e impreveduti. In figurazioni mutevoli, tornano nella solitaria stanza del vecchio poeta i volti della «plebe di Roma».