C’è in Italia una «questione giustizia» e una «questione magistratura». La prima è evidente. Di tempi e di contenuti. Basta guardare la durata dei processi, e la composizione del carcere, dimostrazione scolastica di una giustizia forte con i deboli e debole con i forti.

Al suo interno c’è una «questione magistratura». Altrettanto evidente. L’inefficienza del servizio giustizia ha determinato un netto calo di fiducia nei confronti di giudici e pubblici ministeri. Ma non c’è solo questo. C’è anche una perdita di ruolo, che affonda le radici in atteggiamenti sia della politica e che della magistratura.

La politica mal sopporta l’indipendenza dei magistrati, che vorrebbe acquiescenti alle sue esigenze e richieste. Così il metro di valutazione dell’intervento giudiziario si è spostato dal rispetto delle regole all’“utilità” contingente. Al punto che un sottosegretario alla giustizia affermare che certe sue bizzarre proposte sul futuro della magistratura sono dettate dal fatto che «il suo partito ha una questione aperta con i giudici».

Parallelamente la magistratura si è chiusa in una logica corporativa, interessata alla proprie dinamiche interne assai più che alle grandi questioni della giustizia. Con gli effetti tipici del corporativismo. Da un lato l’insofferenza per ogni tipo di critica, considerata sempre un atto di lesa maestà, anche quando argomentata e sacrosanta. Dall’altro l’allineamento di fatto, nonostante truculente dichiarazioni in contrario, ai desiderata della politica e del governo: basti pensare alla prevalente giurisprudenza del lavoro, a numerosi interventi in tema di immigrazione (a cominciare dalla criminalizzazione delle Ong) o alla repressione indiscriminata dei movimenti di dissenso radicale (a cominciare dai No Tav in Val Susa, per i quali si è giunti finanche a evocare il terrorismo). Il tutto in un quadro di diffusa insofferenza per le regole che devono presiedere all’agire giudiziario, nei processi e nelle dichiarazioni che li accompagnano. Ci sono, ovviamente, delle eccezioni, importanti e di grande rilievo. Ma il trend è questo. E mancano, all’interno della corporazione, segnali di attenzione e di autocritica.
È in questo contesto che si colloca il rinnovo dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. È stato un vero e proprio terremoto, la fine di una stagione. Hanno vinto le due destre: quella di Autonomia e indipendenza e, soprattutto, quella di Magistratura indipendente (che ha avuto una crescita omogenea, a differenza della consorella, premiata in grande misura dal traino del suo candidato di punta, Piercamillo Davigo). Il voto politicamente più significativo, quello per i consiglieri di Cassazione, ha visto eletti i loro candidati e le due componenti, insieme, hanno ottenuto il 57 per cento dei voti validi (4.283 su 7.525).

Hanno perso Unità per la Costituzione (la balena bianca della corporazione, da sempre collettore della maggioranza dei consensi) e, in misura più consistente, Area (la componente “progressista”, nata qualche anno fa da una confusa e traballante fusione tra Magistratura democratica e Movimento per la giustizia) che perde ben 3 dei 7 seggi che aveva.

Le due destre, oggi divise, erano fino al 2015 un gruppo unico, portatore di posizioni corporative e conservatrici (quando non apertamente reazionarie). Di quel gruppo conserva il nome e l’impostazione Magistratura indipendente, il cui leader è tutt’ora Cosimo Ferri, fustigatore della politicizzazione di giudici e pubblici ministeri, attualmente in aspettativa perché deputato del Pd, dopo essere stato sottosegretario alla giustizia in quota Forza Italia.
In polemica con questa contraddittoria gestione, ma non con l’impostazione ideale del gruppo, è nata Autonomia e indipendenza, espressione di una magistratura garante dello status quo (pur emendato dalle volgarità corruttive), dotata di un’autostima a prova di ogni critica (con atteggiamenti sprezzanti e talora sopra le righe verso il “resto del mondo”), arroccata nella propria cittadella. La loro vittoria congiunta è un segnale univoco: per i cittadini, per i magistrati e per un Consiglio superiore in attesa della nomina dei componenti laici e di un vicepresidente che ambirà ad essere, ancora una volta, la “voce del padrone”. Ed è un chiaro segnale per la politica: la prova che il vento di destra è diventato egemone nella giurisdizione e che la magistratura non ha bisogno di essere normalizzata, avendoci già provveduto da sola. Non finiranno i contrasti tra politica e magistratura, ma saranno sempre più contrapposizioni di potere e non conflitti per la tutela dei cittadini e, in particolare, dei meno tutelati.

E la magistratura progressista? Esiste ancora, qua e là, ma non in forma organizzata. La cosa era già evidente con la costituzione di Area, sommatoria senz’anima di storie e movimenti eterogenei, interessata solo all’autogoverno (presto naufragata in pratiche clientelari e uffici ministeriali e rappresentata da capi di uffici assai poco presentabili) e divisa al proprio interno (al punto da far mancare alla candidata per la Cassazione, proveniente da Magistratura democratica, una parte dei propri voti e da essere ormai sostenuta pressoché solo da accordi locali).
Storia già vista nella politica tout court, di cui da sempre la magistratura ripercorre le tappe con qualche anno di ritardo. Oggi, quando più ce ne sarebbe bisogno, la magistratura progressista non ha più riferimenti. La speranza è che sappia prenderne atto e ricominci percorrendo altre strade e prefigurando altre idee di giustizia e di magistratura.