Lunedì scorso il Presidente della piccola e costituzionalmente ancora incerta Republika Srpska, Milorad Dodik, ha inaugurato un dormitorio studentesco nella cittadina di Pale, assurta a notorietà internazionale più di vent’anni fa quando divenne la capitale della auto-proclamata Repubblica Serbo-bosniaca. La notizia sarebbe stata inosservata se non perché il dormitorio è stato intitolato a Radovan Karadzic. Dodik, accompagnato dalla signora Ljiljana Karadzic e dalla figlia Sonja, ha rammentato che Karadzic è stato il fondatore e primo presidente della repubblica, il vero padre della patria.

E, nel bene ma soprattutto nel male, ha perfettamente ragione.

Mancava solo Karadzic alla cerimonia. E avrebbe certamente partecipato se l’arresto e la detenzione presso il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia non glielo avessero impedito. Giovedì scorso, dopo quasi otto anni di prigionia e cinque di processo, il Tribunale ha finalmente espresso il suo verdetto, e Karadzic è stato condannato a 40 anni di reclusione per crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità commessi in Bosnia durante la guerra civile 1992-1995.

Possiamo scommettere che nella piccola Repubblica Srpska altre piazze, scuole e giardinetti saranno a lui dedicati. E possiamo essere ugualmente certi che, solamente di là di un labile confine, l’etnia musulmana continuerà a ricordare Karadzic come il più efferato criminale. I musulmani bosniaci, che ieri si affollati di fronte alla sede della corte dell’Aia, non sono soli: al di fuori della grande Serbia, Karadzic è considerato il più malvagio delinquente del XX secolo.

Per quanto ricorrerà in appello, possiamo essere certo che Karadzic finirà i suoi giorni in prigione. Come nel caso di Charles Taylor, il famigerato Presidente della Liberia, il fatto che abbia agito per nome e per conto di un governo non gli ha garantito l’impunità. Lo possiamo considerare come passo in avanti verso il compimento dei Principi di Norimberga, sanciti dalla Commissione per il diritto internazionale delle Nazioni Unite nel lontano 1949, e ancora così spesso disattesi.

Eppure, c’è ben poco di cui gioire. Condannato dalla storia e dal tribunale ad hoc, Karadzic ha vinto sul campo di battaglia perché ancora oggi la Bosnia è inesorabilmente divisa, con la comunità musulmana (e croata) e quella serba senza alcuna vita civile comune. Era questo l’obiettivo centrale della guerra civile, e lui l’ha ottenuto. Era una prospettiva che la comunità internazionale voleva scongiurare, fallendo miseramente. Le condanne del tribunale istituito dal Consiglio di Sicurezza sono dunque essere le lacrime di coccodrillo per l’incapacità di intervenire tempestivamente ed efficacemente per impedire il divampare della guerra. Finanche il luogo martire per eccellenza, la Srebrenica del più grande massacro in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, è nelle mani del vincitore. Il mausoleo per commemorare le vittime è periodicamente infestato e deturpato da fanatici serbo-bosniaci che ancora oggi indossano le divise delle truppe che commisero il massacro. Un po’ come quando i neo-nazisti profanano i cimiteri ebraici, con la sola differenza che i loro comportamenti sono impuniti. La giustizia penale internazionale non ha contribuito alla pacificazione locale, e viene addirittura il sospetto che abbia ancor di più esacerbato i rancori. C’è da chiedersi quali altri strumenti erano a disposizione: forse avrebbero aiutato delle capillari commissioni per la verità e la riconciliazione, analoghe a quelle istituite, proprio negli stessi anni in cui divampava il conflitto in Jugoslavia, nel Sudafrica di Nelson Mandela. Senza di ciò i pochi imputati che finiscono di fronte ad una corte sono agnelli sacrificali.

Aggiunge sconcerto il fatto che la spada della giustizia penale internazionale continui ancora oggi ad essere così selettiva. Chi ha sperato che i tribunali internazionali ad hoc aprissero una nuova stagione dove tutti i potenti fossero rendicontabili per gli abusi sono purtroppo rimasti delusi. Sia di fronte alla Corte penale internazionale come nel Tribunale ad hoc per l’ex Jugoslavia, gli imputati non sono tanto criminali acclarati, sono anche quelli perdenti. Lo stesso tribunale per l’ex Jugoslavia è stato incapace di indagare sull’uso delle bombe a grappolo e ad uranio impoverito, entrambe proibite dal diritto internazionale, da parte della Nato durante la guerra del Kosovo del 1999. Alla fine, il problema è stato archiviato senza alcuna incriminazione.

La condanna di un criminale di guerra era un atto dovuto alle vittime e ai loro cari. Si è detto per i criminali nazisti che non poterli condannare tutti non è una ragione per proscioglierne uno. Ma molte altre vittime – in Iraq e in Siria, in Libia e in Ucraina e in tante altre parti del mondo – attendono ancora che qualche toga si ricordi di loro.