«L’algoritmo definitivo è l’ultima cosa che dovremo inventare, perché una volta entrato in azione, sarà lui a inventare tutto quello che ancora deve essere inventato». È un entusiasmante «mondo nuovo» quello che affiora dalle parole di Pedro Domingos, il computer scientist della University of Washington, autore di L’algoritmo definitivo. Nonostante le dichiarazioni temerarie, non si tratta di un esercizio di futurologia. E neanche di una concessione all’utopia: l’algoritmo definitivo è di questo mondo, poiché è la forma ultima e universale che assumeranno gli algoritmi di apprendimento che trasformano i big data in nuova conoscenza senza necessità dell’intervento umano. Sono i cosiddetti learner, che già oggi suggeriscono ad Amazon i libri che vorremmo leggere e a Netflix i film che vorremmo guardare, insegnano alla Google Car a guidare da sola e a Siri a interagire con gli esseri umani. Sono il prodotto di una nuova scienza, il machine learning, che traccia una via alternativa per misurarsi con la «complessità organizzata», ovvero per raccogliere la sfida che i matematici della metà del secolo scorso avevano lanciato a fondamento di una nuova era scientifica: l’era della cibernetica.

La «complessità organizzata» esige infatti un cambio di paradigma nello statuto delle scienze. Non si piega al vecchio e rassicurante esprit de geometrie: non sopporta la linearità del metodo cartesiano poiché il suo ordine interno è disseminato di variabili concatenate tra loro e dalle combinazioni imprevedibili per la minuscola mente umana. È la complessità osservabile nel mondo organico e sociale, più che in quello fisico. L’utilità del learner risiede quindi nella capacità di organizzare gli uomini in quanto esseri complessi, ovvero senza reificarli per esigenza di semplificazione. Mentre gli algoritmi tradizionali sono sottoposti a istruzioni dettagliate e rigide che riducono la complessità del reale svuotandolo della contingenza, i learner – spiega Domingos – sono dispositivi leggeri, flessibili e versatili, caricati con pochi input iniziali grazie ai quali giungono autonomamente all’obiettivo prefissato. In virtù della loro «costituzione» i learner possono compiere tale operazione senza indietreggiare di fronte alla complessità. Al contrario, essa è la palestra dove si «addestrano», formulando infinità di ipotesi che vengono ogni volta testate, confermate o scartate. Proprio come agli esseri umani, ai learner viene riconosciuta la possibilità di sbagliare, che è anche la condizione imprescindibile del loro apprendimento. Se le macchine hanno automatizzato il lavoro, i learner automatizzano l’automazione secondo canoni umani.

Nel processo di apprendimento l’umano si presenta però all’algoritmo in una forma mediata, ovvero sotto forma di dati. È dalla quantità di dati di cui l’algoritmo dispone che dipende la sua capacità di afferrare l’infinita complessità dell’umano. Ed è questo che i learner promettono alle aziende che si dotano di tali dispositivi: un canale di accesso immediato ai nostri desideri, alle nostre aspirazioni, ai nostri bisogni. I dati sono allora il nuovo petrolio, dice Domingos, riportando quello che è ormai un luogo comune nel mondo del business. Il data mining diventa così il nuovo orizzonte dell’estrazione del valore per colossi come Google, Amazon o Ibm. La nuova frontiera dell’accumulazione capitalistica si colloca pertanto al punto di incontro tra learner e big data. Qui il capitale si presenta nelle vesti scintillanti di potenza digitale: si serve di macchine intelligenti per scrutare nelle nostre esistenze, ma dichiara di farlo per venire incontro alle esigenze, ai gusti e ai desideri di ciascuno di noi. Mentre promette di non sfruttare più uomini e donne ma dati, il capitale trova nel learner un dispositivo biopolitico attraverso cui aggirare la mediazione sociale: la profilazione che gli algoritmi forniscono è la scorciatoia per rapportarsi direttamente con la vita dei singoli individui, facendo a meno della società.

Ecco la pretesa del capitale 2.0. Non si tratta però di una generica messa a valore della vita dei singoli individui, perché il «governo tecnico» dispiegato dai learner riproduce assetti di potere ben radicati nella materialità sociale, dalla quale Domingos, trascinato dalla sua incalzante narrazione, sembra allontanarsi per disegnare i contorni avveniristici di una sorta di cyber-mondo. Egli sembra, infatti, ignorare che ciò che viene messo in scena non è altro che l’ennesimo gioco di prestigio del capitale, il quale fin dalla sua infanzia ha cercato di negare la radice sociale del processo di valorizzazione. Benché dotato di learner, il capitale non cessa cioè di incarnare un rapporto sociale di dominio, poiché la logica di tale rapporto viene trascritta nell’algoritmo stesso.
L’autonomia di quest’ultimo è una finzione o tutt’al più un’autonomia limitata ab origine dal momento che, come Domingos ammette, la «valutazione», ovvero la fissazione degli obiettivi e la logica di base del funzionamento del learner, è in mano a chi lo controlla. Non basta allora, come fa Domingos, invocare astrattamente l’open source come soluzione alle asimmetrie di potere che il controllo del learner determina, perché l’«intelletto tecnico» del capitale rimane sempre «umano, troppo umano»: spogliato della sua veste digitale, i suoi fini risultano grossolanamente mondani.
Nella sua pretesa di autonomia, il learner è cioè la punta più sofisticata dell’apparato ideologico capitalistico attuale. La lotta di classe ai tempi del technical intellect non può allora fare a meno di aggredirne la logica se non vuole rimanere schiacciata da dispositivi matematici formalmente ineccepibili.

Proprio in quanto sintesi di tutti i learner disponibili, l’algoritmo definitivo è il tentativo di spacciare il potere sociale del capitale per il governo puro della scienza, intesa come automatismo cognitivo, ovvero conoscenza svincolata dalle sue concrete condizioni di produzione. Il machine learning è ideologia. È scienza senza storia e nondimeno capace di determinarla: è l’economia politica del XXI secolo, o senz’altro una delle sue branche più promettenti. Il volume di Domingos ci lascia allora con la sensazione che ci manchi una storia critica della tecnologia. O, se si preferisce, una storia «politica» della scienza aggiornata all’oggi, che sappia preparare il terreno all’imprevedibile, al «cigno nero» che, a differenza dell’imprevisto, neanche il learner riesce a contemplare: l’insubordinazione di massa che pure ha scandito in più punti la storia del capitalismo.