Che la moda stia faticando, e parecchio, a trovare un metodo per raccontare questi anni e, quindi, creare una narrazione alternativa a quella che già c’è, non è un argomento nuovo. Che una parte della moda si stia accanendo contro se stessa per autoeliminarsi è un’evidenza che arriva anche dall’ultima settimana di moda maschile per il 2017 a Milano, dove si sono ben evidenziati gli schieramenti. In campo ci sono: i conservatori-conservatori, quelli che «guai a cambiare qualcosa, a prescindere»; i progressisti-conservatori, quelli che «cambiamo un pochino ma mica tanto, e alleiamoci con i conservatori se no perdiamo il potere». E poi ci sono quelli che «il cambiamento è necessario e urgente», che gli altri due schieramenti tacciano di movimentismo ma che sembrano i soli ad aver capito la situazione.

 

 

Non stiamo parlando delle ultime elezioni politiche né della Brexit, ma il quadro è identico. E se il sistema non si autoriforma e insiste a conservare lo status quo come succede in Europa, presto potrebbe esserci una Fashionexit spontanea di consumatori con conseguenze più pesanti di quelle che seguiranno all’uscita dell’Uk dall’Eu.
A essere benevoli, si potrebbe dire che questa è stata una «stagione di transizione», anche perché le decisioni in campo sono moltissime, prima fra tutte la sopravvivenza stessa della settimana della moda maschile. Vista la decisione di molti marchi di accorpare le collezioni uomo e donna in una sola sfilata, potrebbe anche succedere che il prossimo giugno la Fashion Week maschile diventi qualcos’altro. Ma ora è presto per dirlo. È invece tardi per invitare i protagonisti, aziende e stilisti a non farsi prendere dall’ingannevole fascino dalla conservazione quando analizzano le crisi attuali. Insomma, devono mostrare coraggio, se lo hanno.

 
È un po’ come nella politica italiana, che ha dovuto aspettare il successo dei movimenti per rendersi conto che le analisi politiche vanno fatte con strumenti differenti dall’epoca in cui i partiti erano delle istituzioni. Nella moda è la stessa cosa e questa impasse si riverbera sia nella creatività sia nel prodotto. È imbarazzante, quindi, sentire stilisti che continuano a immolarsi sulla pretesa immutabilità del proprio Dna, senza rendersi conto che l’immobilità è lo strumento che seppellirà la loro storia. E sono gli stessi che perdono tempo ad affossare qualsiasi tentativo di rinnovamento radicale, lanciandosi in commenti non lusinghieri su chi una strada diversa la percorre da tempo o ha iniziato a percorrerla da poco. E anche con successo.

 
Su questa spaccatura si manifesta anche il tipo di moda maschile vista in questi giorni, tra abiti che vengono supposti corrispondenti alle richieste di un mercato che esiste solo nella testa dei conservatori e abiti che esprimono il tentativo di agganciare la cultura mutevole dell’uomo di oggi. Il vero dramma è che, come la politica, la moda ha perso la fascinazione. Il rifiuto che c’è per quella politica che pur dichiarandosi nuova adopera i vetero linguaggi dell’apparato è lo stesso che molti consumatori hanno per quella moda che propone modelli che corrispondono a stili di vita che non esistono più. Ed è la stessa moda che è incapace di affiancare il cambiamento sociale e culturale, i cui autori dovrebbero capire che l’accusa di «sabotatori del sistema» che lanciano a quegli stilisti che lavorano per capire il mondo in cui vivono fa male più a loro che a chi la riceve.

manifashion.ciavarella@gmail.com