Mentre la città di Ferguson si infiamma per l’uccisione di un giovane nero disarmato da parte di un poliziotto bianco, incontriamo lo studioso-militante George CiccarielloMaher – docente alla Drexel University, autore di un libro sulla storia del Venezuela contemporaneo, mentre è in corso di pubblicazione «Decolonizing Dialectics: Conflict and Political Identity» – per fare il punto sullo stato delle tensioni razziali negli Stati Uniti.
«Per comprendere i fatti di Ferguson – esordisce CiccarielloMaher – occorre ricordare che negli Stati Uniti la violenza della polizia è un fenomeno storico che riguarda in particolare i neri. Ferguson, città-sobborgo abitata in maggioranza da una popolazione bianca fino agli anni Settanta, è oggi una città a maggioranza nera mentre la polizia è rimasta bianca. Piccoli reati come la “condotta disordinata” o, come nel caso di Michael Brown, l’”attraversare la strada in modo irresponsabile” interessano soprattutto i neri. È cioè una questione che ha sempre a che fare con l’essere bianco e l’essere nero. In questo senso, le persone con le mani alzate a Ferguson vogliono dire che la lista di uccisioni impunite di neri disarmati (cinque nell’ultimo mese) è troppo lunga. Si tratta di un’espressione di rabbia e insieme un segno di impotenza, ma esprime anche la volontà e la consapevolezza che qualcosa deve essere fatto e che, in assenza di una seria riforma, solo le rivolte possono funzionare. Il che, storicamente, non è in impreciso. Rivolte e ribellioni hanno sempre giocato un ruolo importante nel trasformare la politica».

Per quali ragioni i media offrono una narrazione edulcorata dei riot, indugiando sulle immagini della polizia che marcia con i manifestanti?

C’è un titolo che spesso campeggia sui media: «La polizia si unisce alle proteste». Ma la polizia non si sta unendo alle proteste. È piuttosto una strategia contro-insurrezionale storicamente utilizzata per allentare il pugno di ferro. Una strategia più morbida che punta a indebolire la mobilitazione con la cooptazione. L’altra questione problematica della narrazione dei media è che ciò che sta accadendo a Ferguson non riguarda direttamente la militarizzazione della polizia. Certamente, dopo l’11 settembre, i dipartimenti di polizia hanno acquisito tecnologia militare, come i i mezzi blindati visti nelle strade di Ferguson. Ma se cerchiamo l’essenza di ciò che sta accadendo nella militarizzazione della polizia ci sfugge il fatto che anche quando la polizia non era militarizzata era ugualmente razzista. Eliminare le armi pesanti va bene, ma non risolverà le cose. Abbiamo piuttosto bisogno di comprendere i fatti alla luce di una lunga storia di supremazia bianca. E poi abbinare questo alle militarizzazione della polizia. Occorre cioè assumere una prospettiva storica e leggere la strutturazione delle forze di polizia negli Stati Uniti come una delle eredità dell’abolizione della schiavitù. La polizia, il suo apparato e le sue istituzioni sono infatti la risposta alla minaccia posta dal lavoro nero libero, e dalla mobilità del lavoro nero che segue l’abolizione della schiavitù.

La continuità tra la fine della schiavitù e l’avvento della carcerazione di massa è un tema cruciale per comprendere le tensioni razziali negli Stati Uniti contemporanei, come mostra la popolarità del libro di Michelle Alexander, «The New Jim Crow». Tuttavia, per interrompere tale continuità ci si limita a sostenere la riforma delle leggi sulla carcerazione. Possono i fatti di Ferguson dimostrare il fallimento di tale approccio?

In questi momenti emerge sempre il tema della riforma. Viene cioè riconosciuta la necessità del cambiamento sociale, ma non la portata, la radicalità del cambiamento necessario. Poi c’è la questione del tipo di riforme in gioco: riforma delle modalità di addestramento della polizia, della formazione della loro sensibilità, o stiamo parlando di un qualche tipo di quota per cambiare la natura demografica dei dipartimenti di polizia? La realtà è che la funzione della polizia rimarrà comunque inalterata. Anche in un dipartimento di polizia nero le funzioni saranno improntate alla supremazia bianca. Perché, dato il rapporto tra proprietà e «bianchezza» negli Stati Uniti, la polizia che protegge la proprietà riproduce la linea del colore determinando chi è soggetto alla violenza e chi no, chi deve essere controllato e chi no. E questo ci porta alla questione della cosiddetta «America post-razziale», in cui l’elezione di un presidente nero sembra dirci molto circa la natura di una società «in movimento», ma in termini dialettici può essere l’ultima trovata per contrastare la resistenza popolare alla supremazia bianca.
Così Obama in televisione dice cose corrette sul comportamento della polizia durante le proteste, ma allo stesso tempo afferma che non può esserci giustificazione per la violenza contro la polizia.

L’escalation di giovani neri uccisi dalla polizia può essere considerata come componente di una strategia di controllo sulla comunità nera che si affianca alla carcerazione di massa?

Penso che la carcerazione di massa sia un sistema che comprende sia la polizia che le carceri. È un meccanismo finalizzato a terrorizzare le comunità, a distruggerle, a fare a pezzi le famiglie come per lungo tempo ha fatto la schiavitù. Non si tratta semplicemente di togliere dalla circolazione una gran numero di neri: serve anche a terrorizzare e costringere alla sottomissione. È per questo che la resistenza di Ferguson appare veramente eroica. Non è la resistenza di migliaia di persone, ma una resistenza fatta da piccoli numeri in una piccola città che, ogni notte, è in strada incurante della sproporzione delle forze in campo e dei tentativi di cooptazione.

A proposito di questa «resistenza fatta da piccoli numeri», come è stato possibile trasformare terrore e paura nella rabbia che ha riempito le strade?

La risposta emotiva all’ennesimo omicidio di un giovane uomo di colore è certamente causa di rabbia, ma anche espressione di impotenza, visto che non si tratta di un’eccezione. È qui che nasce la convinzione che non c’è molto da perdere resistendo. Se ti metti nei panni di un giovane nero, che ha una probabilità del 30% di spendere buona parte della sua vita in prigione, il rischio che corri nel continuare a vivere in queste condizioni è alto quanto delle possibili conseguenze nel partecipare a un riot. Si tratta di combinare tale percezione con la consapevolezza che stiamo uscendo dall’ipnosi post-razziale al suo apice con l’elezione di Obama. Il «post-razziale» appare oggi come un brutto scherzo e in tanti si spostano dall’ambiente confortevole della presidenza Obama verso percorsi di lotta. Adesso che abbiamo un presidente nero che è disposto a chiudere un occhio sulle violenze razziali, a rilasciare dichiarazioni ridicole su Trayvon Martin e Michael Brown, a continuare a finanziare il governo israeliano mentre bombarda Gaza, diventa più facile comprendere la situazione e agire di conseguenza.

Una versione più estesa dell’intervista comparirà sul sito Internet: commonware.org