Si dice che la musica, a differenza delle altre arti, abbia bisogno della mediazione di un interprete. Questo è vero solo in parte. Non solo perché è molto recente la separazione tra l’ascolto e l’alfabetizzazione musicale, tra compositore e pubblico. Ma soprattutto perché in realtà tutte le arti hanno bisogno d’interpretazione. La musica rende solo esplicito ciò che nelle altre arti è implicito. Noi non guardiamo la Gioconda di Leonardo con gli occhi di Leonardo. Non leggiamo l’Iliade con la disposizione d’animo e la cultura di un greco del VI sec. a. C., quando fu pubblicata. È vero però che la partitura non è la musica, ha bisogno di essere realizzata o con la voce o con uno strumento. Si potrebbe obiettare che anche il teatro non è il testo scritto, ma la sua rappresentazione. L’arte dei cantori delle cappelle si tramandava di cantore in cantore. I madrigali erano rivolti – come sarà per il quartetto – agli stessi interpreti, che aprivano la pagina e cantavano ciò che leggevano. Tuttavia, da quando la musica strumentale si fece imitatrice degli affetti comunicati dalla musica vocale, i compositori si orientarono a scrivere sempre più esattamente le indicazioni per l’esecuzione. O a premettere alle partiture spiegazioni su come si debbano risolvere le figure di abbellimento. Mozart giudicava «meccanica» l’arte pianistica di Clementi. Chopin s’irritava per le modifiche che Liszt introduceva quando interpretava pagine sue.

Proprio da Liszt e da Chopin, da Clara Schumann, per il repertorio pianistico, come poi da Mendelssohn e Wagner per il repertorio sinfonico, nascono le figure di interpreti che propongo un modello, fino a quel momento giudicato insuperabile. L’interprete diventa un divo, come, e assai più del compositore. Spesso coincidono, da Bach, Händel in poi e, soprattutto, tra i romantici. Nascono le scuole pianistiche, le scuole violinistiche, di quartetto. Nasce la figura del direttore d’orchestra, Mahler, Toscanini, Mengelberg, Walter. E poi Furtwängler, Karajan, Mitropoulos. Noi oggi inorridiremmo se ascoltassimo la libertà che molti di loro si prendevano. Furtwängler incise la Passione secondo San Matteo di Bach eliminando tutte le arie e con una orchestra wagneriana. È una incisione assai interessante: Bach, infatti, sembra Wagner. Facile gridare allo scempio.

I contemporanei di Furtwängler non vi lessero alcuno scempio. Ma intanto era nata la filologia musicale, che restituiva le partiture alla loro scrittura originale, in ogni caso da interpretare e tradurre in suoni. Wanda Landowka aveva recuperato il clavicembalo. E suonare Bach sul pianoforte sembrò, a qualcuno sembra ancora, un oltraggio. Chi ha ragione? Ancora una volta, hanno torto i fondamentalisti. Sia quelli che s’illudono di restituire Bach come lo suonava Bach, sia quelli che lo rileggono come se fosse una partitura fresca d’inchiostro. Bach va letto con le cognizioni storiche che la sua musica pretende. Ma va chiarito un punto: posso ricostruire gli strumenti di un’epoca, posso sforzarmi di suonare come i trattati dell’epoca prescrivono, ciò che non potrò mai fare è ricostruire il pubblico del passato. L’orecchio sentirà sempre quella musica come musica di oggi, anche quando eseguita su strumenti antichi.

Se mai, sembrerà, più che una musica del passato, una musica esotica: antica come oggi ci s’immagina la musica antica. Ma l’orecchio che sente una partita di Bach sul pianoforte, non potrà mai cancellare dalla sua memoria uditiva che per quello strumento hanno scritto anche Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Chopin, Liszt, Brahms, Schönberg e Bartók. E sentirà dunque Bach come musica contemporanea, come del resto già lo sentivano Mozart, Beethoven, Chopin, che lo suonavano sul pianoforte. E avevano ragione. Perché se lo stile ci appare inusueto, il pensiero che lo costruisce è ancora il nostro. Noi pensiamo ancora la musica come la pensava Bach, e come prima di Bach la pensavano Josquin e Machaut. «Ma fin e st mon commencement» è un motet che potrebbe essere uscito dal cervello di Schönberg.