Sono i versi del poeta Séamus Heaney, che ricordava come l’arrivo dei traveller e dei loro carri nelle campagne dell’Irlanda del Nord portasse con sé un’atmosfera elettrizzante, «come se un cancello fosse stato lasciato aperto nella solita vita», ad aprire il volume che il fotografo Mattia Zoppellaro ha dedicato ai nomadi di origine irlandese, Appleby (Contrasto, pp. 66, euro 45), le cui immagini sono esposte fino a domani a Milano, alla Fondazione Forma, per la mostra Altre storie, altre voci.

Dopo aver raccontato le sottoculture e le comunità giovanili, dalla scena dei rave europei fino al punk messicano e all’hip hop senegalese, Zoppellaro ha seguito per quattro anni, dal 2012 al 2016, la fiera dei cavalli di Appleby, nel nord dell’Inghilterra, sorta di festival annuale dei traveller. Il risultato è un reportage entusiasmante, dove le fotografie si alternano alle storie raccontate in prima persona dai protagonisti.

Al bianco e nero sbavato del progetto dedicato ai ravers, il fotografo ha preferito in questo caso la luminosità nitida del colore già utilizzato per immortalare icone del rock come Iggy Pop e gli U2, i flash biografici spaziano da chi ricorda genitori che amavano Elvis piuttosto che i Mod, Mickey che spiega quanto è stato duro il suo coming-out, Taylor che mette la fede cristiana prima di tutto, Seamus che studia psicologia a Londra ma nei weekend raggiunge l’accampamento, fino a Jane che descrive così la propria identità: «sei un viaggiatore (un traveller), le tue radici si perdono nelle generazioni passate, ma sono disperse ovunque».

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Il primo incontro con i traveller è avvenuto mentre stava ancora lavorando sui rave…

Vivevo a Londra e frequentavo i rave. Alle feste c’erano dei ragazzini molesti, magri e lentigginosi che si aggiravano tra la gente. Tra gli altoparlanti giganti e la techno a tutto volume facevano un effetto strano perché sembravano uscire da un’altra epoca, dalle pagine di Oliver Twist, o dalle foto di Lewis Hine che raccontò il lavoro minorile all’inizio del 900. Una notte, uno di loro mi rubò la macchina fotografica. Dopo un po’ però tornò indietro e mi chiese scusa, dicendomi «ti abbiamo scambiato per qualcun altro», prima di invitarmi a bere nel suo camper. È così che ho cominciato a frequentare il loro accampamento in periferia e li ho sentiti parlare della grande festa di Appleby.

Questa fiera dei cavalli attira decine di migliaia di rom, gipsy e traveller. Che clima si respira in quei giorni?

In origine a Appleby ci si incontrava per comprare e vendere cavalli, ritrovare vecchi amici e parenti e celebrare la propria cultura. La fiera si tiene a giugno nei dintorni di questa cittadina della regione della Cumbria, vicino a Gallows Hill, «la collina della forca», chiamata così perché un tempo vi avvenivano le esecuzioni. I traveller, che si considerano discendenti di allevatori originari dell’Irlanda, sfilano con i loro cavalli e si sfidano in gare e acrobazie. È anche un momento di confronto con il resto della società e un appuntamento fisso per tantissimi turisti.

La fiera è un’occasione per superare i pregiudizi presenti nel Regno Unito?

Per certi versi sì, anche se più cresce l’interesse turistico e più c’è il rischio di trasformare i protagonisti in fenomeni da baraccone. Motivo per cui, dopo diversi anni, ho chiuso questo progetto. Il mio lavoro non mira a denunciare una determinata situazione, quanto a far conoscere qualcosa che io stesso sto scoprendo. Però è vero, il razzismo e i pregiudizi sono molto forti. Dall’idea che «i viaggiatori» discendano dall’artigiano che forgiò i chiodi della croce di Gesù, e che per questo siano costretti a vagare in eterno, fino alle rappresentazioni grottesche di serie tv come Il mio  grosso grasso matrimonio gipsy.

Le sue foto e le storie che le accompagnano illustrano anche i limiti della parola «comunità» che va stretta alle biografie descritte. Del resto, come spiega Sam, «la famiglia è dove il tuo furgone può portarti».

Dal rapporto con la fede, a quello con il sesso, al fascino per la cultura di massa ai miti britannici, come la Regina, fino alla politica, i percorsi individuali dei traveller si misurano non senza difficoltà con la dimensione collettiva e comunitaria. Come accade a ciascuno di noi. Il mio sguardo sui gruppi e le comunità si concentra sulla tensione che si crea tra l’individuo, la propria soggettività e lo sforzo o il desiderio, l’inevitabilità di appartenere a qualcosa di collettivo.

Le immagini nate da questo incontro sono ritratti nitidi, con le persone che si mettono in posa con familiarità. Un esito non scontato…

Per farmi accettare ho proceduto per gradi. All’inizio facevo come Bruce Davidson che nei primi anni ’60 documentò la rivolta degli afroamericani e la vita nei quartieri popolari di New York, in particolare l’East Harlem. Ogni giorno attraversava quella zona, scattava le sue foto e poi correva a stamparle per farle vedere agli abitanti. Allo stesso modo, la prima volta che sono stato a Appleby scattavo, tornavo in albergo a stampare le foto e il giorno dopo le regalavo alle persone ritratte. È così che la diffidenza iniziale ha lasciato il posto alla curiosità reciproca e non sono stato percepito più come un estraneo.