A venticinque anni dalla strage di Capaci si commemora Giovanni Falcone, domani (finalmente) al Consiglio superiore della magistratura e martedì nell’aula bunker di Palermo, con la presenza, in entrambe le circostanze, del Capo dello stato: una staffetta simbolica tra il Csm, istituzione nella quale credeva molto, tanto da candidarsi per cercare di farne parte e anche da qui combattere la Mafia (bocciato non per l’intervento di «poteri forti» ma per mere beghe elettorali e correntizie) e l’aula del dibattimento del maxiprocesso dove, invece, aveva ottenuto il più grande successo giudiziario di tutti i tempi contro la Mafia. Questa specie di pendolarismo tra sconfitte e successi, con la costante fiducia nelle istituzioni della Repubblica, quali che fossero e da chiunque fossero rette, è stata una delle componenti fondamentali della personalità di Falcone: le critiche, specie da sinistra, a questa fiducia nelle istituzioni, fossero pure in mano ai socialisti di allora, non lo hanno mai scalfito, né lo hanno fatto tentennare. Intendiamoci, Falcone era innanzitutto un giudice, mosso dalla sola ambizione di fare bene il suo mestiere e ci era riuscito tanto da diventare un maestro per molti di noi, carismatico, indiscusso. Spesso mi chiedono cosa mai fosse il «metodo Falcone». Io credo che fosse una grande serietà nelle indagini, volte alla ricerca di prove capaci di resistere in giudizio, senza andare dietro a teoremi, a effimere ribalte mediatiche o a richieste di piazza per una giustizia sommaria.

NIENTE SCIATTERIE o distrazioni, da qui i penetranti controlli bancari e societari, le intercettazioni, il precipitarsi dovunque, in Italia o all’estero, ci fosse stato l’arresto di un mafioso o di un trafficante di droga per cercare connessioni con Cosa nostra, le continue rogatorie internazionali, i costanti contatti con giudici e investigatori di mezzo mondo grazie anche alla credibilità che aveva presso questi ultimi, la stessa credibilità che poi aveva spinto alla decisiva collaborazione molti mafiosi. Il tutto, ovviamente, tenuto insieme dalla regola di una rigorosa difesa del segreto istruttorio. Un esempio. Buscetta si pente e verbalizza con lui per due mesi. La circostanza e gli stessi verbali sono conosciuti da molti all’interno dell’ufficio istruzione, ma nulla trapela all’esterno proprio per non bruciare l’inchiesta: altri tempi, altre tempre di magistrati e forze di polizia!

Oggi ci sembrano prassi scontate, ma la novità stava nel fatto che queste tecniche investigative fino allora non erano mai state messe in campo, che erano iniziate solo con Gaetano Costa e Rocco Chinnici (entrambi uccisi dalla mafia) e poi proseguite e affinate da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e dal pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto e dalla procura guidata da Vincenzo Pajno.

GIOVANNI FALCONE aveva un grande senso dello Stato, era un leale uomo delle istituzioni, mai tentato di contestarle o metterle in crisi, anche quando umanamente avrebbe potuto farlo. Era stato bocciato dai suoi nelle elezioni al Csm, probabilmente non sarebbe stato nominato alla guida della superprocura da lui disegnata e voluta, era stato scavalcato da Meli alla guida dell’ufficio istruzione, ma perseverava nel rispetto delle regole. Altro esempio. Meli, convinto della non unitarietà di Cosa nostra, decide di spacchettare la maxinchiesta e inviare i singoli fascicoli ai vari tribunali dell’Isola dove erano stati consumati i singoli delitti, ma non sa dove mettere le mani. Si rivolge allora proprio a Falcone per essere aiutato nell’impresa. Alcuni di noi siamo contrarissimi, ma lui decide di aiutarlo perché era il legittimo titolare dell’inchiesta, il nuovo capo al quale si doveva obbedienza!

Con il nuovo codice di procedura penale, transita alla procura come aggiunto ma qui l’aria è cambiata ed è usato solo come la foglia di fico, impedito però di svolgere quella frenetica attività investigativa cui era abituato. Quindi la decisione di andarsene a Roma al ministero della giustizia retto da Martelli, come direttore generale degli affari penali: una postazione istituzionale da lui ritenuta strategica per la lotta alla mafia. Da qui continua ad organizzare la superprocura e, soprattutto, convince i vertici della Cassazione ad attuare una rotazione nella assegnazione dei processi di mafia: salva così il maxiprocesso con la conferma integrale della sentenza di primo grado e la condanna dei mafiosi, gli ergastoli e le lunghe pene detentive: altro che salito sul carro dei socialisti!

PER TOTÒ RIINA e la mafia la misura era colma: l’inevitabile sentenza di morte è eseguita il 23 maggio. E’ stata solo la mafia o ci sono state altre «entità» esterne? Da anni giornalisti e magistrati si affannano a ripetere che, forse, potrebbero esserci state ma, senza prove, seguendo il «metodo Falcone» questo resta solo un teorema senza riscontri, utilizzabile solo per polemiche.

Bisogna ricordare che proprio Falcone, nel suo libro scritto con la Padovani, assegnava al reato di 416 bis la funzione di aprire un’inchiesta e non più di tanto, ma poi ci volevano le prove di fatti concreti, di reati, per andare a giudizio. Certo, ci sono circostanze acclarate, con i soliti «collettori di carte» all’opera, dalla cassaforte del generale Dalla Chiesa trovata vuota, ai computer di Falcone ripuliti, alla agenda di Borsellino scomparsa, alla incredibile mancata perquisizione del covo di Totò Riina e si spera sempre che qualcosa, prima o poi, emerga. Fino ad ora però rimane l’indubbia certezza della responsabilità della mafia che di «ragioni» autonome per uccidere Falcone ne aveva in abbondanza.

IN QUESTI GIORNI è uscito un bellissimo libro di Giovanni Bianconi su Falcone, L’assedio, completo e, per me, anche commovente. Non sono però d’accordo sulla tesi di fondo, di un Falcone sconfitto, isolato e per questo offerto come vittima sacrificale alla Mafia.

Le sconfitte, oltre all’amarezza dei tanti tradimenti, non avevano intaccato la sua combattività e poi quel termine «isolato» è proprio fuori luogo. Lui, il potente direttore generale degli affari penali, in grado di incidere anche sulla rotazione dei processi in Cassazione, l’inventore della superprocura, legittimato dalla carica e dalla riconosciuta professionalità a utilizzare nella lotta alla mafia tutte le leve nazionali e internazionali, dall’ Fbi in giù, isolato, e da chi, da cosa? Falcone è stato ucciso per tutto quello che aveva fatto e che avrebbe potuto fare, né più, né meno.

Oggi, grazie anche all’esempio del suo metodo, ci sono in tutta l’Italia centinaia di processi contro le organizzazioni criminali, i boss delle mafie nostrane sono tutti in carcere: la battaglia continua, ma non è più impari. A chi dice che in Sicilia la mafia è ancora forte anche se non ci sono più i morti ammazzati a centinaia all’anno, mi viene di rispondere: e vi pare poco?