La fiction non ama tematizzare la crisi economica, e non lo fa sia per via dei grandi produttori televisivi, che temono un flop su un argomento così delicato, sia perché nel momenti di crisi la gente, quando guarda la televisione non vuole pensare al mutuo da pagare e al costo della vita che s’impenna, preferisce evadere. Invece la crisi morde pesantemente anche negli investimenti.
L’Italia, infatti, nel corso del 2013, è diventata l’ultima tra le cinque grandi nazioni europee a investire in fiction. Quest è quanto emerso da un colloquio con Milly Buonanno, direttrice dell’OFI (Osservatorio sulla Fiction Italiana) e ordinario di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso l’università La Sapienza di Roma.

Sembra che i nostri broadcaster siano fermi a mafia story come «Pupetta, il coraggio e la passione» o a produzioni «sicure» come la riduzione televisiva Sky di Gomorra. Ma come si pone la fiction nei confronti della crisi economica che ha coinvolto tutto il mondo occidentale?

La fiction, non solo quella italiana, si potrebbe occupare di crisi in due modi: o mettendo in scena storie che la tematizzano e trattano le conseguenze che essa comporta per i singoli e le famiglie, o rappresentando quegli strati della società che ne sono più colpiti, ovvero quelli medio – bassi. Nessuno di questi due casi si verifica. Questo perché soprattutto la produzione eriale italiana si ferma alla classe media estesa oppure in alcuni casi parla del ceto alto – borghese.

Si possono fare dei confronti con altri paesi?

Le soap opera del Regno Unito, ma anche una tradizione cinematografica inglese come quella di Ken Loach, hanno avuto una grande cultura popolare operaia e la tradizione di raccontare la vita quotidiana di questo ceto. EastEnders, Coronation Street, narrano la vita di tutti i giorni delle classi popolari, e ancora oggi fanno una media di dieci milioni di spettatori a puntata. Questo da noi non c’è, la nostra fiction non lo fa. C’è qualche accenno alla crisi economica quasi esclusivamente in Un posto al sole, e più che altro per quanto riguarda la piccola e piccolissima borghesia, per esempio per ciò che concerne i problemi di occupazione. Paradossalmente pure l’ingente produzione seriale Usa tocca, anche se incidentalmente, questi problemi. Esiste infatti un serial family, Shameless, fiore all’occhiello di Showtime, dove il protagonista è un alcolizzato, che vive di sussidio pubblico e con una figlia adolescente che deve provvedere ai bisogni della famiglia. In questo caso, un ruolo importante è svolto dalla solidarietà tra poveri. Ma la crisi economica è solo uno degli argomenti di questa famiglia disfunzionale.

Quali sono le strategie produttive italiane di fronte al problema della crisi economica?

Raccontare la crisi significa toccare un nervo scoperto ed è qualcosa che la fiction italiana fa con difficoltà, in quanto ha una tendenza un po’ pacificante. I broadcaster hanno poi timore di investire nell’argomento in quanto pensano che possa non avere audience. Infatti in tempi difficili la gente vuole divertirsi e non piangere davanti alla televisione. Inoltre i tempi di progettazione e di produzione di una fiction sono molto lunghi, più di due anni, e l’argomento «crisi», pur non recentissimo, è stato tematizzato a livello nazionale e internazionale in senso forte solo l’anno scorso.

Quanto morde invece la recessione negli investimenti?

Un effetto negativo lo si registra: se nella stagione, 2006/2007, periodo aureo della fiction domestica, si era arrivati a produrre ben 800 ore globali, attualmente si è ridiscesi al di sotto dei livelli del 2000, con meno di 500 ore prodotte tra Rai, Mediaset e Sky, ridiventando l’ultimo tra i cinque grandi paesi europei.

Come si comportano i broadcaster dei cosiddetti Pigs, i paesi poveri dell’Unione Europea?

Tra tutti la Spagna è un caso interessante perché, sebbene sia nelle condizioni economiche che tutti sanno, ha mantenuti inalterati i suoi livelli produttivi. Punta inoltre su un pubblico giovane, che di solito guarda serie americane e che è trascurato dai nostri produttori. Sta poi esportando sia format che produzioni. Oltre ai successi del passato, Un medico in famiglia (tratto dal format spagnolo della fiction Médico de familia) e I Cesaroni (la serie originale si chiamava Los Serrano), recentemente ha venduto all’Italia e anche agli Stati uniti i diritti di Pulseras rojas (Braccialetti rossi). La fiction, prodotta dalla Palomar di Carlo Degli Esposti per la RAI (regia di Giacomo Campiotti), parla di una storia di braccialetti rossi che indossano degli adolescenti ricoverati in un ospedale pediatrico di ammalati gravi.