«Il ‘semplicemente naturale’ non mi interessa più» – scriveva Thomas Hardy nel suo taccuino. «L’esatta verità concernente i fatti materiali cessa di essere importante in arte. Io voglio vedere la realtà più profonda che sottostà a quella scenica, la cui espressione a volte è considerata immaginazione astratta». Virginia Woolf, che pure era affascinata da Hardy, si chiedeva quanta immaginazione astratta potesse entrare in un romanzo.
Le interpretazioni arbitrarie di Via dalla pazza folla (Fazi Editore «Le Strade», nuova traduzione di Enrico Mistretta, pp. 480, € 19,50) cominciarono alla sua prima acclamata comparsa nel 1874, tanto da richiedere l’intervento dell’autore che nella revisione del 1895 pregava i cortesi lettori e la stampa di non credere che fosse realmente esistito un Wessex vittoriano – Wessex era l’antico nome del suo nativo Dorset. E così gli usi e costumi di quell’angolo remoto in cui si poteva godere di albe, tramonti, fioriture, diluvi straordinari, amori per sempre, villici affettuosi con i padroni e viceversa, animali collaborativi, non intendeva porsi come ultimo paradiso di chi volesse fuggire dalla «pazza folla». E la «pazza folla» non era quella anonima delle grandi città, ma quei morti illustri sepolti a Westminster, secondo il verso 19 della famosa «Elegia scritta in un cimitero di campagna» di Thomas Gray, che lottarono ignobilmente per il successo mondano, spregevoli a fronte della nobile condotta di chi era vissuto umilmente a contatto con la natura nel villaggio natio.
Il ben noto conflitto ideologico tra città industrializzata e campagna idilliaca è stato rivendicato anche in questo caso da Raymond Williams che ha sottolineato il realismo delle fatiche del pastore, dei contadini, dei servitori, le tracce della autentica e viva cultura rurale. Del resto oggetti, piante e fiori, animali e umani, in questo romanzo agreste collaborano a disporsi coralmente in quella ingenua armonia che si può ammirare in certe antiche tele. «In cima al carro, la ragazza se ne stava immobile, circondata da tavoli e sedie a gambe all’aria, appoggiata a una panca di quercia e adornata, davanti, di vasi di gerani, mirti e cactus, insieme a un canarino in gabbia … In un paniere di vimini c’era anche un gatto, che dal coperchio semiaperto stava affettuosamente sorvegliando a occhi socchiusi gli uccellini in giro». Lei, Bathsheba – «la voluttuosa», amante adultera di re David – è la nostra eroina, una Cenerentola, ma tra breve per una improvvisa eredità sarà «padrona» di una ricca fattoria. Lui, Gabriel Oak (Gabriel è l’angelo forte e Oak «quercia»), l’uomo che la sta contemplando, innamorato, è un ricco pastore che tra breve perderà tutto il gregge e diventerà un Cenerentolo. Ma si riscatterà con un duro lavoro, lealtà, onestà, intelligenza; per molti critici è l’eroe cristiano che alla fine otterrà il giusto premio come il protagonista del Pilgrim Progress di Bunyan, una allegorica guida spirituale presente nella sua piccola e ben scelta biblioteca. Boldwood (bosco orgoglioso) è un drammatico resto romantico, feticista innocente, stalker insopportabile, con la sua irrinunciabile proposta di matrimonio a una Bathsheba sempre più riluttante.
La fiaccola dell’erotismo entra brillantemente in scena retta da un perfetto dongiovanni vittoriano, il tenente Francis Troy, un personaggio che viene da un fuori sconosciuto. Nelle oscurità misteriose del bosco incontra Bathsheba, «la padrona», e la fissa in una passione senza scampo che conoscerà estasi, umiliazioni, tradimenti, dolorosa servitù fino alla morte. Qualcosa le si era impigliato alla gonna – ci avverte l’autore – «inchiodandola brutalmente a terra», devastando la sua acerba femminilità, iniziandola alla voluttà oscura dell’amore non corrisposto. Il loro secondo incontro è una pagina magistrale di seduzione. La spada di lui le insegna che amore e morte si eccitano a vicenda. Il tenente Troy è legato alla bionda Fanny, la tenera servetta che lui vorrebbe sposare, ma il matrimonio è impedito da una di quelle piccole fatali ironie tanto care a Hardy. Leslie Stephen, direttore del «Cornill Magazine», in cui il romanzo usciva a puntate, avrebbe voluto eliminare la storia di Troy e Fanny, ma Hardy difese l’integrità del suo personaggio che correggeva l’ebbro vitalismo del dongiovanni mozartiano.