Dopo aver dedicato molti anni alla trattazione dell’Illuminismo, Jonathan Israel, notissimo professore di storia moderna a Princeton, irrompe ora con un libro, La Rivoluzione francese Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre (Einaudi, traduzione di Palma di Nunno e Marco Nanni, pp. 960, euro 42,00) che promette di épater les historiens. Malgrado un paio di secoli di investigazioni, infatti, gli storici non avrebbero capito nulla della Rivoluzione francese, o almeno, della sua natura profonda. Le origini del più grandioso terremoto politico dell’età moderna sono state variamente attribuite: vuoi a una crescita economica dirompente, capace di travolgere un sistema politico fatiscente, vuoi, all’opposto, a una crisi congiunturale, un micidiale cocktail di finanza statale dissestata e di carestia; allo stesso modo, il tormentato ma resiliente percorso della Rivoluzione è stato spiegato facendo riferimento al radicalismo ideologico giacobino, oppure, alternativamente, alle «circostanze», quel trascinamento inesorabile indotto dalla «forza delle cose».

Dopo due secoli e passa d’inesausta eziologia, quasi una ricerca del Sacro Graal, si è ora diffusa – scrive Israel – una certa stanchezza e la tendenza a propendere per una molteplicità di concause, materiali, culturali, sociali; mentre è venuto il momento di affermare con nettezza che la rivoluzione ha una sola vera big cause, e cioè il propagarsi, in una sezione della classe dirigente francese, delle idee dell’Illuminismo radicale. Torna tra queste pagine il sistema di pensiero esposto dallo storico inglese in un precedente e assai discusso volume, Una rivoluzione della mente (Einaudi, 2011). Negli ultimi venti anni Israel, già autore di importanti studi sull’ebraismo europeo – Gli ebrei d’Europa nell’età moderna (Il Mulino 1991) e sull’Olanda – The Dutch Republic (Clarendon Press 1995), si è dedicato a tratteggiare una tradizione di pensiero democratico e critico che fa risalire a Baruch Spinoza. In una serie di poderosi saggi è venuto delineando, così, l’evoluzione secolare delle idee dell’Illuminismo radicale come fondatrici della tolleranza, del laicismo e della democrazia. Proprio queste idee diventano ora la causa causans della Rivoluzione, che dunque non sarebbe tanto – come era parso a molti contemporanei prima ancora che a molti storici – un inatteso e sconvolgente evento, capace di evocare la tempestosa forza della natura (il fortunale, il cataclisma) e di modificare il mondo conosciuto dell’Ancien régime al punto da renderlo irriconoscibile, quanto la mise en scène di un copione già scritto, o almeno di un canovaccio per una recita a soggetto. Le idee, insomma, precedono e rischiarano la strada agli avvenimenti, che, come la salmeria, seguono.

Da Daniel Mornet in poi la storiografia ha lungamente dibattuto il tema delle origini intellettuali della rivoluzione francese, ovvero, per dirla con Roger Chartier, quello delle sue radici culturali. E naturalmente il nesso Illuminismo-rivoluzione, ovvero la questione del legame fra concezioni filosofiche e morali e sovversione politica, è stato al centro di accesi dibattiti. C’è stato anzi chi – tra loro Robert Darnton – ha provato a legare direttamente la diffusione della stampa clandestina, satirica e iconoclasta, alla crisi dell’autorità politica. Mai nessuno, però (se non, con tutt’altri intenti, la pubblicistica reazionaria), aveva collegato tanto strettamente l’affermarsi del ruolo dei philosophes nell’imporre la centralità della ragione illuministica e la disgregazione politica della monarchia dei Borbone.

Ma – e sta qui la principale innovazione proposta da Israel – queste idee, non sono, come tante volte si è affermato genericamente, quelle dell’Illuminismo: sono invece i ragionamenti di una sua specifica sezione, quella radicale, corrispondente ai nomi di Diderot, del barone D’Holbach e di Helvétius: idee perciò democratico-repubblicane, materialiste e atee, le sole capaci di ispirare e attrezzare la leadership rivoluzionaria sia politicamente, sia sul piano filosofico e logico.

Per rendere credibile la sua tesi, Israel deve dimostrare come la pattuglia di intellettuali alla guida della rivoluzione sia stata, sin dal 1788, di orientamento democratico-radicale e repubblicano: ipotesi invero azzardata e, a dirla tutta, malgrado l’inesausta erudizione sfoggiata, priva di sostegni documentari.

Piuttosto che immaginare la rivoluzione come un calderone di esperienze capaci di trasformare gli individui, inducendoli a divenire rivoluzionari, Israel ha bisogno di sostenere che alcuni fra loro, i leader della rivoluzione, lo fossero in qualche modo sin dall’inizio, e che costoro coincidano esattamente con chi si era dotato di «buone» letture. Israel sostiene infatti che la rivoluzione «progressista», quella repubblicana, dell’emancipazione e dei diritti umani, discende direttamente dalle idee dell’Illuminismo radicale e si invera nel filone girondino prima e in quello degli idéologues, poi. Le idee dell’Illuminismo moderato, da Voltaire a Montesquieu, nutriranno invece la corrente «inglese» ovvero monarchico-costituzionale e liberale, mentre da quelle di Mably e di Rousseau originerà il populismo autoritario dei giacobini e in primo luogo di Robespierre.

C’è dunque una corrispondenza precisa e anzi meccanica tra riferimenti intellettuali e scelte politiche, una coincidenza avanzata con l’intenzione esplicita di privilegiare il gruppo degli amici di Brissot, qualificati come gli unici veri democratici perché capaci di attingere al filone ideale «giusto»; mentre a destra come a sinistra scelte politiche errate dipenderebbero da letture filosofiche improprie. Questo eccessivo schematismo, man mano che la trattazione procede, non si attenua, e anzi tende ad accentuarsi.

Liquidata la stagione monarchico-costituzionale come passatista, il panorama che emerge all’indomani del 10 agosto 1792, la journée che segna l’avvento della Repubblica, è quello di un drammatico bivio. Da una parte c’è l’unica rivoluzione che possiamo ancora rivendicare – insinua Israel ammiccando al lettore contemporaneo – quella dei veri philosophes, e con loro dei diritti umani, delle libertà civili, dell’emancipazione degli ebrei, della rivendicazione della cittadinanza femminile e dell’abolizione della schiavitù. Mentre dall’altra c’è la rivoluzione sanguinaria inaugurata coi massacri del successivo settembre e sfociata poi nel Terrore. La prima è l’opera esclusiva di una pattuglia di filosofi e politici idealisti, chiamati brissotins o girondini, sostenitori del cosmopolitismo e dell’uso della ragione in politica, laddove la seconda è il prodotto di una deriva sciovinista, dispotica e demagogica di cui sono responsabili i giacobini, adoratori della volonté générale.

Lo scenario storico che ne discende, malgrado l’enorme mole di fonti mobilitate in quasi mille pagine di testo, suona artificiale, senza sfumature, una sorta di rassicurante film western d’antan in cui tutto il bene sta da una parte e tutto il male dall’altra.

Israel non sembra preoccuparsi troppo dei rischi di anacronismo interni a una simile contrapposizione e anzi arriva al punto di affermare che il populismo autoritario di Robespierre prefigurerebbe «il moderno fascismo». Ora, mettere sulle spalle dell’avvocato di Arras, oltre alle sue personali, indubitabili colpe, anche il gravoso fardello dei mali di ciò che sarebbe divenuto «il socialismo reale», sembra già – all’altezza di questo nostro 2016 – inappropriato; ma aggiungerci quest’ultimo gravoso peso è davvero troppo.

C’è poi un’altra insidia che Israel sceglie intemeratamente di non considerare, ed è la dichiarata approvazione dell’aggressivo imperialismo francese, prima repubblicano e poi napoleonico; l’idea cioè che esso vada non solo capito ma creduto nella sua pretesa di essere indirizzato a donare la fiaccola della ragione a paesi sprofondati nelle tenebre dell’ignoranza e della superstizione religiosa. Israel difende insomma, con convinzione, la diffusione per via militare delle idee rivoluzionarie, facendone una sorta di precorritrice dell’idea attuale dell’esportabilità con la forza della democrazia, e della cosiddetta responsibility to protect. Dunque, non solo approva acriticamente la scelta brissottina di lanciare il paese in una guerra sanguinosa e interminabile – portatrice di infiniti lutti e, in ultima analisi, della trasformazione della prima repubblica in una dittatura militare e poi in una monarchia imperiale – ma accredita la spedizione del generale Bonaparte in Egitto come finalizzata a convertire gli egiziani e le popolazioni arabe confinanti agli ideali dell’Illuminismo. La propaganda bonapartista diviene così canone interpretativo.

Ora, come si sa, il risveglio nazionalistico che infiammò l’Europa nel primo ventennio del XIX secolo non discese soltanto dal nuovo concetto di popolo-nazione ma anche dall’inaudita invasione delle armate napoleoniche in molti paesi del vecchio continente, dove (in Germania, in Tirolo e soprattutto in Spagna) avrebbe dato luogo all’apparizione in grande stile di ciò che i teorici militari settecenteschi chiamavamo «piccola guerra» e che da allora si sarebbe chiamata guerriglia. Meno noto è il fatto che la presenza di truppe straniere produsse effetti simili anche in Egitto. Israel, sulla scia di Napoleone, non nasconde la sua delusione per la scarsa penetrazione in Medio Oriente degli ideali democratico-radicali e per la contrarietà di quelle popolazioni a farsi «illuminare»; e sorvola sul fatto che anche in Egitto i francesi si trovarono a mal partito nel fronteggiare una tenace guerriglia, ispirata dalla «jihad» ordinata dal Califfato e rilanciata dagli ulema.

Già il giorno successivo al suo sbarco, il 2 luglio 1798, in una viuzza di Alessandria Napoleone fu ferito a un piede da un cecchino. Era solo l’inizio: la resistenza politica, ma anche religiosa, dei locali – rafforzati da combattenti giunti dall’Arabia – lo condusse in ottobre a ordinare di bombardare la città e la moschea di El-Akzar, centro spirituale della sollevazione. Tornano alla mente le famose, irreverenti domande di Brecht: «Su chi trionfarono i Cesari?», «chi ne pagò le spese?».