L’arte contemporanea «ha certo un gran bisogno di teoria – forse un disperato bisogno». E Giuseppe Frazzetto con Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione (Fausto Lupetti, pp. 208, euro 15,00) risponde a tale esigenza con una vera e propria estetica all’altezza del XXI secolo, dentro la sua complessità che – a partire dallo snodo costituito dal Neoclassicismo e Romanticismo – ha mutato radicalmente paradigma e oggi si installa nella convergenza tra l’autoreferenzialità del fare artistico e la saldatura tra arte e vita. L’anti-arte, intesa come identità tra vita e arte, si sta volgendo verso la differenza tra il non-artista e chi invece al sistema dell’arte appartiene.
Due tappe di questo cammino sono costituite dall’Action painting, con il suo slittamento dall’opera all’operare, e dalle varie modalità con le quali l’arte diventa biopolitica.

UN ESEMPIO di «installazione somatica» sono le forme mediante le quali il corpo in quanto corpo della donna Marina Abramovic esibisce la nuda vita della corporeità politica dell’artista. La profonda somiglianza tra questa duplicità e la duplicità dei due corpi del re di cui parla Kantorowicz spiega perché mai l’estetica di Frazzetto si intitoli Artista sovrano. Dal Neoclassicismo in avanti l’arte si è trasformata in una prassi chiusa dentro se stessa con la metamorfosi dell’artista artigiano – che faceva come voleva e poteva ciò che in ogni caso doveva fare- nell’artista sovrano che abbandona la prospettiva, un punto di vista oggettivo sul mondo, a favore di una pluralità di punti di vista creati dall’artista stesso, padrone dello spazio, delle relazioni, delle durate e – alla fine – della stessa denominazione di qualsiasi oggetto o situazione come arte.

È TRAMONTATO il principio della delega che una società fa all’artista di rappresentarla, a favore dell’autoinvestitura dell’artista sovrano che non si limita a coltivare ciò che la comunità ha seminato, ma cerca, afferra e collega tra di loro i frammenti sparsi nel mondo, a cui è proprio il gesto dell’artista a conferire senso e identità estetiche.
È questo il Terzo stato dell’arte. Nel primo stato la comunità conferiva una delega al «facitore/creatore». Il secondo consisteva nell’autoinvestitura dell’artista rispetto alla comunità non artistica. Il terzo – che naturalmente allude anche al Tiers état della Rivoluzione francese – «implica una presa di distanza da una condizione ‘sacrale’ e/o ‘nobiliare’: il Terzo stato dell’arte non produce emblemi collettivi, e d’altra parte non riguarda né gli specialisti d’arte né il sistema dell’arte. È prodotto da tutti, è un prodotto qualunque».

LA SOVRANITÀ dell’artista è dunque realizzata? Sì e no, in modo inestricabilmente ambiguo. In un sistema nel quale tutto diventa arte, a decidere l’interesse, la rilevanza, il senso, non è più l’artista ma il sistema dell’arte – critica, finanziatori, spazi, informazione-, che pone tutti al servizio del mercato. Un mercato del quale il singolo artista diventa il servo/padrone, «il sovrano e simultaneamente la vittima».
Una conferma è la necessità dello spettacolo per la definizione contemporanea dell’arte, delle situazioni artistiche, delle performance.

CON LA RETE, i videogiochi, i selfie, con la connessione continua che ci attraversa, siamo tutti diventati il replicante che ha visto cose che gli umani non potrebbero immaginare. Eppure, proprio per questo, ciò che si vede rischia di non contare nulla, di non incidere, di non significare se non per il singolo, di non essere. La mobilitazione totale sembra diventata la festa infinita nella quale non si lavora, non si fa nulla, e con questo fare nulla si può diventare artisti e famosi, se qualcuno ancora più famoso ti indica come tale, se il sistema dell’arte coopta nell’apparato il doppio qualunque dell’artista sovrano.