Non si può essere uniti per forza. Però si può decidere di fingersi uniti ed è quello che il Pd, a Napoli, prova a fare dopo una settimana da incubo. Fa finta di niente, più di ogni altro, Paolo Gentiloni: «Il Pd è il messaggio della sinistra di governo e il perno per la prossima legislatura».

In nome del quale il premier ingoia tutto: la coltellata della mozione contro Visco, l’ordine di mettere la fiducia sulla legge elettorale, l’offesa del Cdm disertato. Oggi Renzi e i ministri presi a schiaffi saranno tutti insieme sul treno del ritorno, per mimare un’intesa inesistente.

Lo spartito era pronto già da venerdì sera e il coro esegue a menadito, dal Renzi che nega qualsivoglia tensione col governo, «Non c’è nessuna rottura» al Franceschini che twitta ecumenico: «Sorry, lavoro per unire non certo per dividere ancora di più», dal Minniti che ingoia il pessimo umore montato per l’assenza dei renziani nel Cdm della vigilia, alla collega Pinotti che pensa positivo e interrogata sul fattaccio esorta: «Guardiamo avanti».

Il problema però è proprio che molti nel Pd «guardano avanti» e quel che vedono li spaventa assai. Vedono un esito delle elezioni in Sicilia che si profila disastroso. L’ordine di scuderia è già stato diramato. Nel prevedibile caso di sconfitta secca si dirà che «la Sicilia è una situazione specifica che non rispecchia il quadro nazionale». Però lo si dovrà dire sforzandosi di nascondere il tremore per la convinzione opposta.

Vedono anche, dietro l’angolo successivo, qualcosa di peggio per le elezioni politiche. Lo scollamento fra i colonnelli e il cerchio stretto renziano è qui totale. Renzi è ottimista. Anche in privato si mostra certo di poter bissare in termini di percentuali il risultato delle europee vittoriose e del referendum sconfitto, quel magico 40%, o almeno la soglia di sicurezza del 36%, che pensa di aver incassato in entrambe le prove.

Ma i sondaggi dicono l’opposto. L’ultima rilevazione Ipsos, pubblicata ieri dal Corriere della Sera, assegna al partitone il 25,6%, un punto e mezzo meno di luglio, cinque punti in meno rispetto a maggio. Il responso della voce amica Youdem è altrettanto fosco: schianto al nord e a sud bisognerà conquistare ogni seggio con le unghie e con i denti. Il peggio è che anche l’obiettivo nascosto dell’alleanza di governo con Fi non pare affatto a portata di mano.

La strategia impostata e imposta da Renzi non consente neppure grandi speranze di rimonta.

La rottura con Grasso, figura vista da una parte sostanziosa della base come icona dell’antimafia, è un disastro che in privato ammettono tutti, anche se in pubblico la consegna del silenzio è tassativa.

L’invadenza di un Verdini stanco di fingersi oppositore rischia di vanificare il colpaccio dello Ius Soli approvato all’ultimo momento sul fronte sinistro, mentre su quello destro resterà intatta la mazzata in termini di popolarità.

Queste, ancora, sono preoccupazioni tutto sommato politiche. Poi ci sono quelle di più bassa cucina. Per qualche mese, dopo la batosta del 4 dicembre, Renzi aveva accettato, se non una gestione collegiale del partito, almeno la necessità di trattare con i principali alleati, a partire da Franceschini. Ma da quando sente odor di urne l’ex rottamatore è tornato a decidere tutto consultandosi solo con i fedelissimi.

Il non aver avvertito neppure Franceschini della mozione contro Visco equivale a un’affermazione perentoria: «Il partito sono io».

Se questo è il prologo ci si può figurare cosa succederà quando appunto i suoi fedelissimi dovranno stilare le liste, forti di una legge elettorale che permette al segretario e ai suoi luogotenenti di decidere chi entrerà in Parlamento e chi no.

Chiunque non rientri nel novero dei fedelissimi renziani se lo figura perfettamente.

Dunque subito dopo le elezioni siciliane, domenica prossima, le tensioni malcelate potrebbero deflagrare. Renzi ne è consapevole ma è convinto di avere tutti gli assi in mano. Il suo controllo sugli organismi dirigenti è ferreo e senza di quelli, all’ormai folto plotone di dissenzienti rimangono pochissime armi.

Perché di una cosa il segretario è certo: il coraggio di osare una nuova scissione, con il voto dietro l’angolo, non ce l’avrà nessuno.