Premiato per miglior sceneggiatura e per miglior attore, Joaquin Phoenix, You Were Never Really Here, è stato l’ultimo film presentato in concorso. Correvano voci che Lynne Ramsay stesse ancora montandolo due giorni prima della proiezione –cosa probabilmente vera, dato che allo screening della stampa mancavano i titoli di coda. Con soli 85 minuti di durata, brutalmente scolpiti dal romanzo dello scrittore newyorkese Jonathan Ames, il primo lungometraggio della regista scozzese da sei anni a questa parte (We Need to Talk About Kevin era a Cannes 2011), non pecca del problema di molti film finiti in fretta –eccessi di materiale, ripetizioni e lungaggini.

Eppure, con l’ardire delle sue ellissi, dei suoi salti narrativi, e del suo comprimere scene intime e passaggi stilizzatissimi, questa versione arthouse, iperformalista, di Taxi Driver, su musiche di Johnny Greenwood (Radiohead), riesce lo stesso a essere ridondante. In una delle sue interpretazioni più, letteralmente parlando, strasberghiane Phoenix è un feroce grumo di dolore, deformato da un’infanzia di abusi, un paio di tour sul fronte d’Iraq seguiti da un soggiorno tra i ranghi del Fbi dove, investigando casi di tratta umana, si è trovato di fronte a un camion frigorifero pieno di ragazze soffocate -il tutto presentato in flashback e condito da una dieta di alcol, barbiturici e auto asfissia con sacchetti di plastica.

Quando lo incontriamo, Joe mantiene se stesso e l’anziana mamma con cui vive (dolcissima e simpatica, l’attrice Judith Roberts) a Queens o dintorni, facendo il killer su commissione. Tre le sue specialità, casi di pedofilia. Cosi è contattato da un politico locale, che gli chiede di liberare sua figlia Nina, prigioniera in una townhouse dove pervertiti di alto rango si divertono stuprando bambine come lei.

Liberamente ispirato all’irruzione di Travis Bickle/Robert De Niro nel bordello dove lavora Jodie Foster, il rampage di Joe è condotto a base di martello e visualizzato in bianco e nero granoso, nell’occhio multiplo e impassibile delle telecamere di sorveglianza. Nina è bionda, bella e traumatizzata. Come Joe. Lui la libera ma poi le cose si complicano e gliela portano via –al che parte un’altra carneficina. È una bella giornata, dice lei quando si ritrovano. È una bella giornata, concorda lui. Finale ridicolo di un film non privo d’intuizioni ma asfissiato di pretenziose, paternalistiche, ovvietà.