Se la critica letteraria italiana patisce una crisi di senso al punto di rischiare l’astrattezza e la non comunicabilità – come i vari interventi sulla Talpa libri dedicati a Critica dove sei? tra aprile e giugno 2018 hanno dimostrato – la critica letteraria femminista gode in questo periodo i frutti di una lunga stagione di dissodamento e riflessione che dagli anni Settanta si è dipanata fino ad oggi.
Molti sono infatti ormai i volumi, i saggi e le letture innovative che si devono alla critica letteraria femminista, anche se apparentemente sembra viaggiare clandestina, come da titolo (con il punto interrogativo però) di un convegno del 2015, i cui atti a cura di Maria Serena Sapegno, Ilenia De Bernardis e Annalisa Perrotta sono a stampa con il titolo Critica clandestina? Studi femministi in Italia, (Sapienza University Press, 2017, liberamente scaricabile in pdf ).

TRA I CONTRIBUTI recenti il bel libro di Maria Serena Sapegno dedicato alle Figlie del padre. Passione e autorità nella letteratura occidentale (Feltrinelli, pp. 256, euro 20, postfazione di Cristina Comencini), che ha molti pregi: intanto quello di una scrittura densa e al tempo stesso chiara, che permette una lettura a più livelli del proprio ordine del discorso, che è in primis ordine simbolico, e Sapegno lo dichiara fin dall’introduzione, auspicando che un’analisi del conflitto padre-figlia, che in altri termini è il conflitto con la tradizione che ci precede, non cancelli ancora una volta la madre, come invece avvenuto nel corso della cultura occidentale anche recente.

Il respiro poi dell’analisi è molto ampio sia sotto il profilo della temporalità del discorso, che va dal mito, dalla Bibbia e dall’antichità arrivando fino ai giorni nostri, individuando nel Settecento e nell’Illuminismo un periodo di svolta per quello che si potrebbe definire l’inizio della liberazione delle figlie dall’ordine patriarcale, grazie anche all’ingresso delle scrittrici sulla scena pubblica. Di vasto respiro poi l’insieme delle opere letterarie prese in esame, che si collocano nell’ambito della amplissima categoria della letteratura occidentale, spaziando dalla letteratura in lingua inglese, da Shakespeare a Philip Roth passando per Virginia Woolf e Sylvia Plath, francese (Diderot, Balzac, Zola, Simone de Beauvoir), tedesca (Lessing, Schiller, Thomas Mann, Ingeborg Bachmann) e italiana, da Boccaccio a Metastasio, Goldoni, Alfieri, Pietro Verri, fino alle scrittrici dell’attuale contemporaneità: Amelia Rosselli, Rosetta Loy, Clara Sereni e molte altre.

ESSERE FIGLIE DI PADRE, come lo sono state Eva, Ifigenia, Cordelia e molte altre, ha certo significato la ribellione all’autorità patriarcale, trasgredendo le leggi in nome di altre leggi come nel caso notissimo di Antigone, anche se questo ha sovente avuto il carattere di essere libere di sacrificarsi e non molto di più, osserva Sapegno. Di tutto questo la letteratura reca traccia, così come del conflitto tra la legge del padre e quella della madre, anche quando scritta da uomini, che siano essi Ovidio, che nelle Metamorfosi mette in scena il tabù del desiderio incestuoso della figlia Mirra per il padre Cinira, re di Cipro, rappresentando così l’ambivalenza costitutiva della relazione padre-figlia, sempre al limite tra ciò che è lecito e ciò che è illecito, tra fas e nefas, ovvero l’attrazione di uomini grandi per non dire anziani per le giovani donne, la cui colpa in questa storia (come in altre) ricade sulla figlia.

Oppure il Boccaccio della novella del Decameron che ha per protagonista Ghismunda e suo padre Tancredi, principe di Salerno, in cui è il padre a non riuscire ad accettare il desiderio sessuale della figlia per un altro uomo che non sia egli stesso medesimo, diventando così il tiranno che provoca la morte della figlia che non ha scampo se non nella sottrazione. O ancora Shakespeare, in cui la critica dell’eccesso paterno, come nel caso di Cordelia nel Re Lear, diviene critica del potere monarchico senza misura.

SEMPRE ASSENTE la madre in queste rappresentazioni, anche e soprattutto tra Sette e Ottocento, quando il conflitto tra la libertà della figlia e i dettami della legge del padre assume l’aspetto simbolico del conflitto tra stato assoluto e cittadino, come osserva il filosofo John Locke in un interessante paragrafo del suo Essay on Government, dedicato proprio al Of paternal Power (Il potere paterno). Ma la vera svolta avviene con le scrittrici, alle origini del romanzo moderno: da Jane Austen di Orgoglio e pregiudizio, la cui protagonista è una figlia intelligente di sé e del mondo e soprattutto libera di sbagliare e ripensare sé e la sua vita in modo autonomo, a Mary Shelley, Emily e Charlotte Brontë con le loro protagoniste ribelli e coraggiose, conflittuali e indomite e soprattutto non più disposte a sacrificarsi, ciò che si inaugura e che Virginia Woolf aveva inquadrato con la sua propria chiarezza è una stagione di cambiamenti così profondi e radicali da modificare anche le opere degli scrittori.

Senza le loro opere Ibsen non avrebbe potuto scrivere Casa di bambola, che mette in scena la rivolta di una figlia, e così Henry James, che nella introduzione alla nuova edizione di Ritratto di signora nel 1908 scrive come abbia fatto proprio il parere di George Eliot, secondo la quale non vi era soggetto più interessante di una giovane donna da mettere al centro della narrazione nel suo acquisire coscienza e cognizione di sé, che è proprio quanto Isabel Archer fa, anche se non sappiamo dove tutto questo la condurrà.

ALLE SOGLIE del Novecento, osserva Sapegno, i padri sono ormai spogliati di qualsiasi autorità pur continuando ad esercitare un potere assoluto: scrittrici italiane come Marchesa Colombi, Sibilla Aleramo e Maria Messina mostrano però come sia ormai inarrestabile «la centralità propulsiva del nuovo soggetto femminile», anche a costo di strappi feroci. Sovente consapevoli figlie di uomini colti, come ben rappresentato da Virginia Woolf, ma capaci, anche in virtù del femminismo storico, di guardare al padre con pietas a volte struggente, come nel caso di Artemisia di Anna Banti e di Ritratto in piedi di Gianna Manzini, fino ad arrivare a La lunga attesa dell’angelo di Melania Mazzucco, dedicato a Jacopo Tintoretto e alla amatissima figlia Maria.
A riprova della validità della proposta critica di Maria Serena Sapegno molti sono i nomi che si vorrebbe aggiungere a tale composito panorama, ricco di possibilità di ulteriori e proficui approfondimenti e proprio per questo tanto più importante.

TRA QUESTI il nome di Alice Ceresa, che a La morte del padre e al congedo del lutto ha dedicato un bellissimo racconto (1979 e poi in volume nel 2013) e prima ancora, nel 1967, ha scritto un meraviglioso e innovativo romanzo sperimentale dedicato a La figlia prodiga, disobbediente per «libertà di usi e costumi / e di coscienza / e di scelta / e di vita».
Se, come scrive Ceresa, vi è una realtà della letteratura, e ancora prima Virginia Woolf riteneva la letteratura strumento privilegiato di lettura del reale, molto è cambiato dall’odio per la madre di Elettra e ci si può così rivolgere alla disobbedienza della figlia prodiga come a un modo per congedarsi dalla famiglia così come ci è stata consegnata e pensare alla letteratura come a una forma della relazionalità. Che riesca a farlo anche la critica letteraria italiana è altra storia.