Dopo dieci anni, non è sopito del tutto il boato delle bombe che l’11 marzo del 2004 hanno insanguinato Madrid. Bruciano ancora le bugie di ieri e le allusioni di oggi. Brucia il pensiero dei 191 morti e dei 1.858 feriti, macabra contabilità di quello che è stato il più truce attentato della storia dell’Europa in tempo di pace. Brucia il ricordo di una giornata quasi primaverile, un giovedì tiepido, luminoso, incompatibile con la morte, trasformatosi presto in un’apocalisse di terrore. Con i taxi carichi di feriti che facevano la spola tra i centri di soccorso, lo stridore delle sirene, un ospedale da campo montato nel cuore delle città. Ai punti allestiti per la donazione del sangue, code interminabili, come se i madrileni volessero trasfondere un po’ di vita in una città caduta esangue nel volgere di pochi minuti.

Tutto intorno alla stazione di Atocha – fulcro dell’attacco – «uno strano odore di bruciato, che non ho sentito mai più ma che riconoscerei tra mille», racconta un tassista. Poche grida, solo un coro di lamenti di fondo e un sinistro brulichio di volti insanguinati e di sguardi straniti: «Uscivano come zombie: ci guardavano ma era come se il loro sguardo ci attraversasse», dice un medico, affondando la memoria nel doloroso ricordo.

Ad Atocha c’è un monumento alle vittime, un cilindro trasparente che emerge dalla strada e proietta un suggestivo cono di luce nella penombra raccolta della stanza che si apre sotto il livello del suolo. Se si entra nel ventre della stazione, la si può visitare: sulla superficie del cilindro, le migliaia di messaggi di speranza e di cordoglio raccolti in quei giorni; alla parete uno straziante elenco delle 191 vittime: inizia con Eva Belén Abad Quijada e finisce con Csaba Olimpiu Zsigovski, in mezzo un groviglio inestricabile di nomi. E ci sono i sopravvissuto, alcuni non hanno più messo piede su un treno; c’è chi non riesce ancora a dormire, chi vive con il senso di colpa per non aver aiutato l’amico al suo fianco. Solo pochi hanno recuperato la serenità, nessuno ha cancellato il ricordo.

Sembra un monumento ai caduti di una guerra, quello di Atocha. Eppure quell’11 marzo era una giornata di pace, lacerata dal fragore di varie esplosioni su quattro treni carichi di pendolari, che dalla periferia della capitale convergevano nel cuore della città. Alle 7 e 39 della mattina, la prima bomba sventra un treno fermo nella stazione di Atocha; pochi secondi dopo, un altro treno si accartoccia nella calle Téllez, a 500 metri dall’ingresso nella stazione. Nessuno capisce, nessuno fa in tempo a rendersi conto di nulla. Come due pugni in faccia, a distanza di 3 minuti, saltano in aria altri due convogli fuori dal centro, nelle stazioni di Elpozo e Santa Eugenia, qualche chilometro a sud est della capitale. La Spagna trattiene il respiro. Nello sconcerto generale, nella confusa concitazione dei notiziari, nel macabro risveglio della città al suono delle ambulanze, a tre giorni dalle elezioni politiche che si sarebbero tenute il 14 marzo, inizia a serpeggiare la domanda: chi è stato? Il governo di José María Aznar ha il suo colpevole e risponde senza esitazioni: «Eta». Il partito Batasuna, politicamente vicino all’organizzazione armata basca, smentisce ma nessuno gli dà ascolto e la versione del terrorismo interno prende piede sull’onda dell’emozione, sospinta dal governo che la accredita con chiamate ai giornali e alle ambasciate spagnole.

Ma c’è qualcosa che non torna. Il modus operandi delle stragi non ricalca quello di Eta: attentati suicidi, nessun preavviso e, ore dopo le stragi, nessuna rivendicazione. Alle 21.30 dell’11 marzo i sospetti acquisiscono consistenza: alla sede londinese del giornale Al quds, arriva una lettera in cui un gruppo legato ad Al Qaeda rivendica il massacro. Il giorno seguente Eta smentisce categoricamente qualsiasi implicazione affidando un comunicato al quotidiano Gara e alla televisione basca Eitb. L’attentato è di matrice jihadista e la versione del governo di centro destra del Partido Popular, guidato da Aznar, è una colossale bugia. Ormai, agli spagnoli è chiaro: in 11 milioni, la sera di venerdì 12, invadono le strade del paese (più di 2 milioni solo a Madrid) per chiedere la verità, mentre il governo insiste sulle responsabilità di Eta. Il giorno dopo la grande manifestazione l’attuale premier Mariano Rajoy, allora candidato premier, ne era ancora certo: «Ho la convinzione morale che sia stata Eta». Una versione amplificata da giornali e tv (soprattutto El Mundo, ma anche la televisione pubblica e l’agenzia spagnola Efe) e avallata da tutto l’esecutivo.

Il 13 è giornata di silenzio pre-elettorale, ma le manifestazioni si susseguono e in rete è tutto un turbinio di messaggi di indignazione contro il governo del Partito popolare, fino a prima dell’attentato favorito nella corsa elettorale. Il 14 si vota. Il 15 El País esce in edicola con questo titolo: «Zapatero sconfigge Rajoy in un ribaltamento elettorale senza precedenti».