Ci provò per primo Nedeljko Cabrinovic, che lanciò una bomba. L’ordigno rimbalzò sul tettuccio della vettura imperiale ed esplose sotto quella successiva, causando alcuni feriti. Il resto del corteo, abbandonata la macchina danneggiata, procedette velocemente verso il Municipio. Qui Francesco Ferdinando si incontrò con il sindaco di Sarajevo, Curcic. Ne seguì un acceso confronto tra militari austro-ungarici e polizia locale. Alla fine venne deciso che il programma della visita era interrotto, e che l’erede al trono con la moglie avrebbe proseguito verso l’ospedale, per visitare i feriti. Nella confusione, però, l’autista non fu avvisato del cambiamento di programma. All’altezza del Latinski Most svoltò a destra, per dirigersi verso il Museo. Il governatore, Potiorek, gli urlò di fermarsi. Gavrilo Princip, uno dei sei attentatori che erano disposti lungo l’attuale Obala Kulina Bana, sulle rive della Miljacka, si trovò così Francesco Ferdinando proprio di fronte, a un metro di distanza. Estrasse la pistola ed esplose due colpi. Nell’attentato morì anche la moglie dell’arciduca, Sofia.

Princip era un giovane serbo bosniaco che apparteneva alla «Mlada Bosna», Giovane Bosnia, un’organizzazione rivoluzionaria legata alla “Mano Nera”, la struttura diretta dall’ufficiale dei servizi segreti serbi Dragutin Dimitrijevic. Il movimento era composto prevalentemente da studenti, influenzati da una varietà di ideali che spaziavano dall’anarchia al socialismo rivoluzionario, al romanticismo. Alcuni, come Princip, sostenevano l’unione dei popoli degli slavi del sud in una sorta di Jugoslavia ante litteram, altri propugnavano un’unione con la Serbia dei territori balcanici sotto controllo austriaco. Tra di loro c’erano sia serbi che croati e musulmani. La loro organizzazione, e i loro metodi, non erano un’anomalia nell’Europa del tempo.

Giovedì scorso, a Sarajevo, ho incontrato Fatima, un’anziana che mi ha raccontato quanto sua nonna le aveva detto di quel fatidico giorno, il 28 giugno 1914. Si era recata in centro per fare degli acquisti, in un negozio che ancora oggi vende alimentari nei pressi del Latinski Most. Quando si sparse la voce dell’attentato, qualcuno disse alla nonna di Fatima che il responsabile era un bosniaco musulmano. La donna si mise a correre, mentre i musulmani chiudevano in fretta le saracinesche dei negozi. Arrivata all’altezza della fontana di Sebilj, le dissero che non era stato un musulmano ma Princip, un serbo. Tirò un sospiro di sollievo, mentre i serbi cominciarono a scappare.

Cento anni dopo, la complessità di quel periodo storico rischia di evaporare in un dibattito segnato dall’attuale, difficile, situazione della Bosnia Erzegovina.La Fondazione «Sarajevo cuore d’Europa» ha organizzato in questi mesi una serie di iniziative, conferenze, mostre e spettacoli, per ricordare il centenario. La Fondazione, che riunisce rappresentanti di diversi paesi (Austria, Belgio, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Italia e Germania), è stata creata su iniziativa del Comune di Sarajevo. Molte iniziative sono sostenute dall’Unione Europea. L’obiettivo dichiarato è quello di inviare da Sarajevo un messaggio di pace al mondo, «dopo 100 anni di guerre vogliamo 100 anni di pace». Obiettivo complementare è quello di cambiare il “brand” di Sarajevo, il topos simbolico che circonda questa città. Non più Sarajevo come luogo del conflitto e dell’instabilità, come è stato nel corso del Novecento, ma simbolo di pace.

Il momento culminante delle celebrazioni è stato il concerto della Filarmonica di Vienna tenutosi ieri sera nella rinnovata Vijecnica, la Biblioteca (allora sede del Comune) da cui cento anni fa Francesco Ferdinando e la moglie Sofia intrapresero il loro ultimo viaggio.

L’abbraccio tra Vienna e Sarajevo, cento anni dopo, non riesce però a nascondere la riconciliazione che non c’è tra serbi, croati e bosniaco musulmani. Mentre infatti i riflettori del mondo si sono accesi su un evento di 100 anni fa, il convitato di pietra è la guerra recente, quella degli anni ’90. Il centenario sembra anzi aver enfatizzato le divisioni, interrompendo una fase positiva contraddistinta anche dalla recente visita a Sarajevo del Primo ministro serbo, Aleksandar Vucic. Il conflitto è rinato in particolare attorno alla figura di Princip, l’attentatore.
Nel periodo jugoslavo, Princip era generalmente considerato una figura positiva, un idealista che si oppose all’occupante straniero nel nome della fratellanza dei popoli degli slavi del sud. Oggi il giudizio è più contraddittorio. Mentre per la maggioranza dei serbi Princip resta un eroe, altri prendono le distanze dall’atto di un «terrorista». Altrettanto diverso il giudizio su Francesco Ferdinando. Le versioni variano da quella di «occupante» a quella di «legittimo erede di uno stato multinazionale». In mezzo ci sono tutte le sfumature. La situazione è aggravata dalla complessità del personaggio-Princip. Ognuno è libero di tirarne la giacca dalla parte più congeniale e vengono impropriamente utilizzate categorie attuali, ad esempio quella di «terrorista», per descrivere fatti di cento anni fa.

Così le istituzioni serbe non hanno partecipato alle iniziative di Sarajevo, ma hanno organizzato delle celebrazioni alternative a Višegrad, nell’est della Bosnia, dove il regista Emir Kusturica ha da poco costruito una piccola Cinecittà, Andricgrad. Si tratta di una struttura controversa dedicata allo scrittore bosniaco Ivo Andric che al centro, coerentemente con lo stile del “nuovo” Kusturica, ospita un’enorme chiesa ortodossa. La struttura, però, sorge su un terreno rivendicato da una famiglia musulmana. I bosniaco musulmani sono stati cacciati da Višegrad in poche settimane, nella primavera del ’92, con una pulizia etnica feroce che ha provocato più di 3.000 vittime in episodi efferati come quello della Pionirska Ulica, dove circa 60 civili bosniaco musulmani, donne e bambini, furono rinchiusi in una cantina e bruciati vivi. La città è nota anche per il sistema di campi di concentramento in funzione durante la guerra, e in particolare per gli edifici che rinchiudevano le donne che venivano stuprate dalle milizie serbe, come la scuola di Strazište. Di tutto questo, però, a Višegrad non è permesso parlare. Il tentativo di alcuni familiari delle vittime di costruire un memoriale nella casa della Pionirska Ulica, ad esempio, è costantemente ostacolato dalle autorità locali. Saltando gli anni ’90, la città però da ieri ha un nuovo monumento a Gavrilo Princip, inaugurato ad Andricgrad alla presenza del Primo ministro serbo Aleksandar Vucic e del presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, oltre che naturalmente di Kusturica. Quasi che il rinnovato interesse sugli eventi di un secolo fa aiutasse a bypassare l’intollerabile passato recente.

Il ritorno a casa di un criminale di guerra poi, nei giorni scorsi, non ha contribuito a migliorare la situazione. Dario Kordic, già comandante dell’esercito croato bosniaco, condannato a 25 anni dal Tribunale dell’Aja perché ritenuto responsabile tra l’altro dell’eccidio di Ahmici (oltre 100 civili uccisi), è stato liberato dopo aver scontato i due terzi della pena. Atterrato a Zagabria, è stato ricevuto da una folla di sostenitori e in suo onore il vescovo Valentin Pozaic ha celebrato una messa. Arrivato in Bosnia Erzegovina, l’ha accolto l’attuale presidente dell’Unione Democratica Croata della Bosnia Erzegovina, Dragan Covic. Il professor Slavo Kukic, dell’Università di Mostar, che si è permesso di criticare le autorità per l’accoglienza data a un criminale di guerra, ha ricevuto la visita in facoltà di un uomo armato di mazza da baseball che l’ha ripetutamente percosso.

La mancata elaborazione del passato recente, che continua a riemergere nelle forme più disturbanti, come la fossa comune scoperta a Doboj dalle recenti alluvioni, sembra così precludere anche la possibilità di affrontare un evento di 100 anni fa. Invece di essere un fattore di progresso, la riflessione sul passato genera divisioni, anche aspre.

L’Europa inoltre non è stata in grado, con queste celebrazioni, di proporre una visione della Prima guerra mondiale che fosse slegata dalle tante narrazioni nazionali che l’hanno sempre contraddistinta. Cento anni dopo, almeno qui a Sarajevo, era lecito aspettarsi qualcosa di più dall’anniversario della Grande Guerra civile europea. La polveriera infatti, nel 1914, era l’Europa, non i Balcani. Ma se la qualità del progetto europeo è ancora così debole, come pensare che i Balcani possano giungere ad un’elaborazione comune del passato?

È un destino amaro per Sarajevo. Questa città non è colpevole per quanto avvenuto all’inizio del secolo scorso, almeno non più di quanto lo furono le diverse cancellerie europee, ansiose di gettarsi in un conflitto dal quale tutti ritenevano di avere qualcosa da guadagnare. Ancora oggi, però, l’assunzione di responsabilità manca, e lo stigma resta su Sarajevo. L’immagine della “polveriera balcanica” è la più semplice per descrivere una cultura che è al tempo stesso la somma di culture diverse, ma che non cancella i singoli elementi di cui si compone. Una realtà che sembra incomprensibile fuori dai Balcani. La nonna di Fatima lo sapeva bene. Per questo si mise a correre.

* Osservatorio Balcani e Caucaso