«Il potere è rappresentato dall’abilità di influenzare gli altri per ottenere i risultati che vogliamo. Lo si può esercitare attraverso due canali: coercizione o pagamento – quello che chiamo hard power – oppure attraverso l’attrazione, il soft power». Le parole sono del politologo americano Joseph Nye.

Il concetto è il seguente: sedurre. L’obiettivo si raggiunge secondo questo schema: richiamare, suscitare interesse, attrarre a sé. Gli ingranaggi della grande macchina del soft power sono partnership strategiche, progetti comuni, cooperazione finanziaria. E quando si parla della Repubblica Islamica dell’Iran all’elenco si aggiungono anche la diplomazia culturale e quella accademica.
Così Teheran cerca di aumentare il suo peso politico. Prova a ritagliarsi un ruolo di interlocutore nella regione mediorientale e, dopo la firma dell’accordo nucleare del 2015, anche nell’arena internazionale. Si lusingano i vicini, si fanno proseliti in patria, si mitigano i timori all’estero.

LE PROIEZIONI DI POTERE IN SIRIA
È il 10 febbraio 2017, l’agenzia di stampa iraniana Tasnim batte la seguente notizia: ad Aleppo il comitato popolare Iran-Siria ha organizzato una cerimonia per commemorare l’anniversario della rivoluzione iraniana del 1979. In pieni toni propagandistici, il comunicato racconta di una «manifestazione di solidarietà all’Iran», Paese che sostiene il regime siriano di Bashar al-Assad, partecipando militarmente a una guerra devastante per la popolazione civile ormai da sei anni. Stesso stile, luoghi diversi: manifestazioni simili si svolgono anche a Damasco, a Latakia e in altri centri. A promuoverli è l’Istituto Culturale della Repubblica islamica (ICRO) o altre organizzazioni finanziate da Teheran.

LA POLITICIZZAZIONE DELLA RELIGIONE
Ecco la traduzione di quanto sopra: proiettare potere attraverso la politicizzazione dell’Islam e fidelizzare intere sacche di popolazioni sciite in Paesi a maggioranza sunnita, con l’ideologia, la cultura, la «politica del dialogo».

Significa promuovere centri culturali, foraggiare scuole, seminari, corsi universitari, associazioni di beneficenza. Dalla rivoluzione del 1979 in poi, nella retorica iraniana vuol dire nutrire quel famoso «asse della resistenza» che lega Teheran a Damasco e agli uomini di Hezbollah in Libano.
Il famoso motto di Khomeini, infatti, era «né Occidente né Oriente». Non significava solo lotta anti-imperialista contro l’ingerenza di paesi stranieri negli affari interni iraniani (in primis da parte degli Stati uniti) e isolamento, ma evocava anche una battaglia ideologica per mantenere l’Islam «incontaminato» da tutte le ideologie provenienti dall’estero.
Era dunque un modo per relegare il marxismo (e i suoi sostenitori che avevano partecipato alla rivoluzione del 1979) fuori dalla Repubblica islamica.

RIVOLUZIONE E DIALOGO TRA CULTURE
L’identità religiosa, sin dai primi giorni della neonata Repubblica, è diventata strumento di proiezione del soft power iraniano. La politica estera di Teheran è stata racchiusa, così, nella cornice retorica dell’Islam: tra particolarismo irano-sciita e universalismo musulmano.

Se i primi anni Ottanta sono stati quelli dell’esportazione della democrazia, i Novanta sono stati quelli «della ricostruzione» in seguito alla devastante guerra con l’Iraq (1980-1988).
Ha avuto inizio l’era del pragmatismo, prima con l’apertura economica dell’allora presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani all’Occidente, e poi con la dottrina della «distensione» dei rapporti, della diplomazia culturale e del «dialogo tra culture», promossa dal riformista Mohammad Khatami attraverso la Dialogue among Civilisations initiative.
Dopo è arrivato il populista conservatore Mahmoud Ahmadinejad, che ha sfruttato l’ICRO per disseminare i principi della Repubblica islamica in giro per il mondo. Ha promosso, inoltre, sempre di più Press tv, l’emittente in inglese di proprietà dell’Islamic Republic of Iran Broadcasting (IRIB).

LA COSTRUZIONE DEL NEMICO
La politica estera della Repubblica islamica si è adoperata nel tempo anche per la costruzione dei nemici e quindi per la lotta contro vere o presunte minacce da parte di essi.
La retorica dello scontro settario con l’Arabia Saudita, rivale naturale secondo alcuni, ha spesso nascosto esigenze strategiche dietro i conflitti religiosi. L’acrimonia Sciiti versus Sunniti non è diventata altro che mezzo della propria legittimazione nella regione e sullo scacchiere internazionale rispetto agli antagonisti sauditi. La sicurezza è diventata questione prioritaria, specialmente in seguito ai conflitti nati dalla repressione delle primavere arabe.

E oggi, da un lato c’è Ryadh a proteggere i piccoli Paesi del Golfo, dall’altro c’è Teheran con il suo ruolo di «contenimento» rispetto alle mire statunitensi in Medioriente. E in una guerra di narrazioni ostili e malevole, l’Iran cavalca l’equazione sauditi uguale finanziatori dell’Isis.

LIBERALE À LA ROUHANI
In questo equilibrio precario si scontrano le visioni della Guida Suprema, Ali Khamenei e dell’attuale presidente Hassan Rouhani. Il primo si è appropriato del concetto di soft power assimilandolo de facto alla soft war che vede come protagonisti l’Iran e l’Occidente. Il secondo – pressato anche da un’economia affannata, a causa delle sanzioni internazionali contro il programma nucleare e della malagestio dell’amministrazione Ahmadinejad – ha scelto la via della distensione e dell’apertura a Ovest.

Massimizzando il potenziale di soft power dell’Iran, riaprendo gli scambi culturali e studenteschi all’estero e incentivando il turismo, è stato il traghettatore che ha portato l’Iran allo stesso tavolo di negoziato sino alla firma dell’intesa con i Paesi 5+1 (Stati Uniti, Russia, Francia, Cina, Gran Bretagna, più la Germania) e l’Unione europea nel 2015, ottenendo anche la sospensione di gran parte delle misure restrittive sul commercio e le esportazioni.

È proprio lui, Rouhani, che a ottobre 2013 ha lasciato di stucco molti studenti quando ha pronunciato il suo discorso all’Università di Teheran sulla diplomazia accademica (anche se in parte rimasto inevaso). «Fidatevi delle università, non bloccate la diplomazia scientifica», ha detto davanti al rettore, ai professori e ai ragazzi.
Ha poi invitato «tutti gli apparati di sicurezza e il Ministro dell’Intelligence» a lasciare i docenti liberi di partecipare alle conferenze internazionali, per «aprire la strada a questa diplomazia».

Tre anni dopo, invece, si è affidato alle «comuni» radici linguistiche e culturali per attrarre progetti di cooperazione ed evitare eventuali tensioni in Asia centrale.
A marzo 2016, in occasione del suo discorso di Nowruz (il capodanno iraniano che cade il 21 marzo) ha scritto, infatti, una lettera ai capi di Stato di nove stati vicini: «Il Nowruz è un festival della moderazione e la più antica traduzione della nostra storia comune».

Lanciando un appello per la «coesistenza pacifica», i codici del discorso politico di Rouhani raccontano di un esplicito piano che sfrutta la retorica dei mutui interessi.
E ancora: il soft power à la Rouhani è diventato nei fatti parafrasi di partnership strategiche e cooperazione in termini di circolazione dei capitali.
Esempi sono l’accordo tra Iran, India e Afghanistan del marzo dello scorso anno, riguardo all’uso del porto iraniano di Chabahar come corridoio commerciale comune, la Nuova Via della Seta che metterebbe in contatto l’Iran con la Cina attraverso il treno Yiwu-Teheran. E poi ancora l’Intesa commerciale Iran-Azerbaijan per la costruzione di centrali idroelettriche.

L’ordine del discorso del potere a questo livello, però, si alimenta di intese strategiche e affari, mantenendosi distante dalle società che invece si frantumano e si dividono, in attesa che venga impresso uno scarto paradigmatico, sospese in eterno nell’ardua ricerca di equilibrio tra hard e soft power.