Appare lampante, e come un’antifona già all’inizio del film, lo scarto apportato da Lanthimos nella Favorita rispetto al suo cinema: una normalizzazione della narrazione, dei suoi schemi, e un umorismo più diretto, meno straniante di quello di altri suoi film, quando non si tratta di vera e propria comicità, fulminante, come nella scena in cui Abigail (Emma Stone) si presenta per la prima volta davanti a sua cugina Sarah (Rachel Weisz) per elemosinarne una qualche mansione a corte, che non riguardi, almeno direttamente, lo sfruttamento dei propri orifizi, com’era stato fino ad allora da parte di un tedesco dal pene sottile a cui suo padre l’aveva venduta.

Riferimento alle cavità corporee e alla possibilità del loro usufrutto che non è casuale e punteggia il film a intervalli più o meno costanti, con le freddure pronunciate ora dal capo dell’opposizione, il clown Nicholas Hoult, eternamente, vistosamente incipriato; ora dalla stessa, disillusa Abigail; ora, per deontologia professionale, da una matrona pragmatica che alla domanda di Sarah risvegliatasi in un bordello dopo una caduta da cavallo, «dove mi trovo?», risponde «in paradiso: quello è Dio» – rivolta a un guitto con le natiche scoperte, flaccide sulla campitura di sfondo, intento a rantolare e a spingere su una figura prona – «presto lo conoscerai».

Abigail compare insozzata di sterco, infangata (in ogni senso) davanti alla favorita della regina: anch’essa incoronata, ma da una trafila di mosche che non smettono di ronzarle intorno nel silenzio del salone affrescato, in una scena che ha la comicità perentoria di un cartone di James L. Brooks.

E PRIMA c’era stato un soldataccio che nella carrozza affollata s’era masturbato con altrettanta rapidità di causa-effetto, infoiato di fronte agli occhi azzurri e alla pelle candita di Emma Stone, poi scaraventata giù dal predellino, nella pozzanghera di letame. Questo corpo delicato, lattescente, che viene in continuazione spintonato dentro le fosse di melma, gli scoli putridi ai bordi degli sterrati, è un corpo slapstick (per quanto cinico e, alla fine, tragico) che cade, si rialza senza fare storie, fa smorfie; e poi strabuzza gli occhi, frigna, gracchia risate di scherno entro uno scenario che del resto non manca di svelare da subito il controcanto nichilista e tragico di questo film: una claustrofobia legata agli spazi asfissianti del palazzo reale, l’orografia funeraria che si estende per via ornamentale e grazie alla deformazione del fish-eye oltre che alle musiche, passando da una specie di rintocco funebre di archi e piano (che scandiscono la tensione in lunghe sequenze) al tipico movimento «largo» delle sonate barocche nei momenti più tragici.

MA È NEI TRATTI comici che Lanthimos sembra esprimersi al meglio, come nella scena del ballo a corte, dove da alcuni passi inaugurali, inscritti nel retaggio della danza di corte, i protagonisti si sfrenano via via in coreografie frivole e pacchiane, attraverso combinazioni di mani sbarazzine, piedi, piroette e trascinamenti sul pavimento, che sembrano una variazione del rock and roll acrobatico. È cioè la sintesi perfetta dell’idiozia del potere, colta da Lanthimos in un contesto (quello aristocratico) e in un tempo (il Settecento) in cui non andava neppure tanto scovata dietro la coltre degli intrighi, dei costumi e dei contegni, perché si rivelava in tutto il suo precipitato comico, proprio nella compiaciuta esibizione di parrucche, orpelli vari, accessi di ciprie sui volti, come quello che agli occhi di Sarah fa apparire la regina Anna (Olivia Colman) simile a un tasso o, secondo Abigail, toglie virilità a Masham.

In effetti le due donne sono i personaggi dotati di maggior spessore, di un’intelligenza pratica che va oltre la vacuità dei ghirigori d’oro sui soffitti e permette loro di entrare in contatto diretto con il potere per ricavarne profitto (forse anche sentimentale se è vero che Sarah ama davvero la regina). Ma il potere è ottuso; e la tragedia consiste nel fatto che ogni intelligenza soccomberà o sarà assoggettata, calpestata di fronte a questo apparato di appariscente, comica stupidità.