«Esiste al mondo una cosa più ragionevole di una lancetta dei secondi?», pensa Tony Webster, all’inizio di quel capolavoro sui non negoziabili rapporti fra il passato e il presente che è Il senso di una fine di Julian Barnes. «Ma a insegnarci la malleabilità del tempo basta un piccolissimo dolore, il minimo piacere. Certe emozioni lo accelerano, altre lo rallentano».

L’idea dell’ultimo romanzo di Christoph Ransmayr, Cox o il corso del tempo (Feltrinelli, traduzione perfetta di Margherita Carbonaro pp. 201, euro 16,00) sembra derivare direttamente da questa riflessione. Ma a differenza di Barnes, che la declinava ironicamente in un romanzo tragico e lieve allo stesso tempo, un vero prodigio di equilibrio formale e stilistico, Ransmayr – rimasto fra i pochi narratori di lingua tedesca capaci di raccontare una storia senza sentire il bisogno di imporle continue deviazioni, di concettualizzarla con riflessioni più o meno congrue e di immergerla nella rarefatta sfera dell’astrazione – sceglie decisamente la via seria, secondo la prospettiva che gli detta la grande tradizione di cui è, forse, l’ultimo legittimo erede.

Stringata e ridotta quasi alle dimensioni di un apologo, la vicenda è tutta incentrata sulla immaginaria visita del celebre orologiaio e inventore di automi Alister Cox (alter ego romanzesco del vero James Cox) nella Cina della seconda metà del XVIII secolo, compiuta allo scopo di realizzare per l’imperatore una serie di orologi capaci di misurare il tempo secondo le diverse forme della sua percezione: il tempo del bambino, quello del moribondo o quello, più di tutti impossibile da realizzare, dell’imperatore stesso, il «signore dei diecimila anni», che vive al di là e al di sopra del tempo e sembra non conoscere infanzia né fine possibile.

Due direzioni della trama
L’idea si racchiude facilmente in poche righe, ma è l’arte di Ransmayr a svolgerla abilmente secondo due diverse direttrici, una più estrinseca – la lotta dell’orologiaio e dei suoi collaboratori per realizzare il desiderio dell’imperatore – e una solo apparentemente secondaria, che si sviluppa tutta nell’interiorità di Cox, marito infelice di una moglie lontana che ama non ricambiato e che la morte dell’unica figlia ha rinchiuso in un mutismo incontrovertibile.

La stampa tedesca, affidataria delle prime reazioni al romanzo, si è concentrata sulla trama estrinseca, se non proprio stroncandolo, quantomeno riservandogli critiche poco benevole. Soprattutto ha insistito sulla (oggettiva) debolezza dell’idea che l’immaterialità del tempo possa essere afferrata da alcunché, fosse anche il più raffinato e futuribile degli orologi umani; ha quindi insistito sulla debolezza dell’assunto «metafisico» del romanzo pur lodandolo per i pregi estetici, e lo ha disinvoltamente relegato in seconda fila fra le opere di Ransmayr. Ora, non si può non concordare con le lodi allo stile di Ransmayr, probabilmente lo scrittore di lingua tedesca che oggi meglio sorveglia e utilizza gli arnesi letterari e che sa piegare il suo stile, in un flusso apparentemente ininterrotto e uniforme assimilabile al moto perpetuo immaginato da Cox, a un’infinità di variazioni di ritmo e dinamica (di qui le lodi alla traduzione di Magherita Carbonaro che queste variazioni segue con precisione cartesiana). Tuttavia l’incomprensione che è stata riservata al romanzo è almeno degna di una delle torture cinesi che Ransmayr accuratamente descrive (per ragioni che si capiranno subito, ma anche questo motivo del libro non è stato compreso, ed è stato anzi considerato, in nome della contemporanea correctness una superficiale e imperdonabile indulgenza dell’autore a stereotipi culturali se non proprio a pregiudizi occidentali). La ragione della condanna che toccherebbe ai critici di lingua tedesca è quella di non aver notato come il romanzo di Ransmayr sia una variante, nel suo insieme, di uno dei massimi capolavori della letteratura romantica tedesca, vale a dire la Meravigliosa favola orientale di un santo nudo di Wilhelm Heinrich Wackenroder e, indirettamente, di tutta la grande letteratura che ne deriva fra cui – precedente di sicuro non secondario per l’austriaco Ransmayr – La donna senz’ombra di Hugo von Hofmannsthal.

Affinità incomprese
La «favola orientale» di Wackenroder, come ancora qualcuno sa, consta di quattro pagine assolutamente geniali contenenti anch’esse una narrazione in forma di apologo (di cui la nuova, eccellente edizione delle Opere e lettere curata da Elena Agazzi per Bompiani offre un’ottima traduzione). La favola è centrata sulla misteriosa figura di un «santo» che trascorre tutta la sua vita costretto a girare incessantemente un’invisibile e immensa ruota del tempo che lo tormenta con un rumore simile a una «cascata di mille e mille fragorosi torrenti» e lo perseguita facendolo impazzire, fino a quando il canto lontano di due innamorati non lo libera dalla sua tortura, restituendolo al cielo da cui proviene come una divinità dell’amore. L’epifania dell’umano, il rivelarsi della profonda e umanissima verità dell’eros scioglie il santo dal suo vincolo.

Non basta ai critici tedeschi che Ransmayr racconti anch’egli una «favola orientale»; che egli descriva torture collegabili per analogia a quella che il santo di Wackenroder patisce attaccato com’è alla sua ruota; che nel padiglione della città imperiale di Jehol, dove Cox realizza il suo ultimo e più grande orologio, si oda il rombo di una cascata; che anche Cox venga restituito alla sua umanità, non da un canto, bensì dal tocco delle mani e dal profumo della favorita dell’imperatore; che questa restituzione all’umano avvenga attraverso una rivelazione dell’amore che lo lega al di là del mondo e dell’universo alla moglie e alla figlia defunta. Non basta loro nemmeno che il tema del mutismo, variato da Hugo von Hofmannsthal nel suo romanzo o in un altro capolavoro come L’uomo difficile si replichi nel silenzio infelice della moglie di Cox e nel muto e rivelatore dialogo a distanza che i due coniugi conducono.

Un narratore colto
Il romanzo resta per loro un incomprensibile passo falso del miglior narratore che l’Austria oggi possa vantare. Un narratore, per di più, colto, anzi, coltissimo, che sul dialogo con la grande letteratura di ogni tempo ha costruito tutti i suoi libri a partire dal primo, forse insuperato, Il mondo estremo, riscrittura delle Metamorfosi ovidiane. Ma incompreso perché ormai pressoché inaccessibile a una cultura che ha perso contatto con la propria tradizione letteraria e ne ignora i testi o, se non li ignora, volentieri li dimentica. L’oblio liberatore del Nietzsche inattuale si è trasformato in una sindrome di affrancamento dalla tradizione sui cui precedenti molto ci sarebbe da dire, ma che ha come prima conseguenza la trasformazione del dialogo culturale in una conversazione impossibile.
Anche il Tony Webster di Barnes è costretto, alla fine della sua storia, a prendere atto che il tempo in cui tutti viviamo ci obbliga, prima o poi, a fare i conti con ciò che abbiamo lasciato indietro. Forse il compito della poca critica letteraria consapevole oggi superstite è quello stesso che nel romanzo di Barnes aveva la lettera da cui tutto prende l’avvio: quello di lanciare un messaggio nel tempo in attesa di chi, un giorno o l’altro, sarà costretto a raccoglierlo.