C’era una volta un grande alveare. Le api erano molto feconde e vivevano negli agi e nel lusso, anche grazie alla corruzione diffusa. Mentre milioni di loro passavano il tempo a lavorare, innumerevoli altre si lanciavano, con poca fatica, in qualche affare di grande guadagno. La società era piena di ciarlatani, borsaioli, chiromanti, ruffiani e giocatori di azzardo che vivevano sulle spalle dei loro simili.

Un giorno, in seguito alle lamentele generali, Giove decise di liberare il grande alveare da tutti i suoi imbrogli: gli inganni svaniscono, l’onestà colma i cuori, cala la maschera dell’ipocrisia. I debiti vengono ripagati, la presenza dei giudici superflua. Ad esercitare la medicina sono soltanto i competenti, i medici non si arricchiscono più a spese dei pazienti. A corte, i ministri iniziano a vivere in modo frugale. Ci si accontenta. Nel giro di poco, le api abituate a spendere troppo se ne vanno, vanità e lusso spariscono. A quel punto, a trovarsi in difficoltà sono anche quelle api, non poche, che vivevano grazie al consumismo sfrenato. Tante se ne vanno. L’alveare si impoverisce e diventa facile preda dei suoi nemici. In fin dei conti, conclude l’autore, il vizio è necessario.
Così scriveva Bernard De Mandeville in La favola delle api. Correva l’anno 1706. Olandese, Mandeville era un medico che si dilettava a scrivere storielle come questa, pubblicata anonimamente e venduta per le strade di Londra, dove si era recato per il Grand Tour, un’abitudine dei figli delle famiglie ricche e colte del Nord Europa.

Intrisa di ironia, la sua favola ebbe grande successo e ora, a riproporne una scorrevole versione italiana, non letterale, è Giuseppe Di Leva in un volumetto dato alle stampe dall’editore torinese Prinp (pp. 80, euro 10), editoria d’arte che ha tra le sue ultime pubblicazioni anche «Teatro provincia dell’uomo» di Fernando Mastropasqua, ispirato nel titolo e nel metodo al lavoro di Elias Canetti e Nella città senza spettatori di Paolo Giardino che ha fotografato i fantasmatici pannelli dei film girati a Torino, nei giorni di pandemia.

Giuseppe Di Leva, dopo aver esordito come autore teatrale con Il tumulto dei Ciompi nel 1973, ha lavorato in teatro con Carmelo Bene e con Hans Werner Henze a Montepulciano. Librettista, è autore del celebre Pollicino.
In calce a questa edizione di La favola delle api, il lettore trova alcune pagine di Sergio Romano in cui si ricorda il celebre discorso di Craxi sul finanziamento dei partiti e quindi sulla corruzione politica, laddove la favola di Mandeville si focalizza invece sulla corruzione sociale che si annida un po’ ovunque. Di fronte ai deputati, il 3 luglio 2002 Craxi disse: «Ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale.

Se gran parte di questa materia dev’essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Come ricorda Antonio Polito sul Corriere della Sera, «Nessuno si alzò. Ma nessuno ebbe neanche il coraggio di riconoscere che si trattava di un problema politico, da risolvere politicamente. Tutti sperarono che la campana suonasse solo per Craxi. E le cose andarono diversamente». Vent’anni dopo tangentopoli, corruzione ed evasione valgono il dieci percento del Pil del nostro paese. Parafrasando Mandeville, «la virtù non può, da sola, rendere grande un paese».