La tappa decisiva del Giro d’Italia, da Alba alla vetta del Sestriere, parte monca. Mancano Colle dell’Agnello e Izoard, la montagna dove Bartali fece succedere un quarantotto al Tour del ‘48. I francesi incazzati, gli italiani, dal Monte Amiata a Gravina di Puglia, ancor di più, almeno quelli che scesero sulle barricate per l’attentato al Migliore, e ne ricevettero pallottole. Reduci dallo sciopero dei corridori di avant’ieri, viene da rammentarlo anche a questo proposito, Bartali, che non solo nell’epoca sua era il più forte, ma anche la voce dei forzati del pedale.

IL CICLISMO COME sport nasce da due spinte contrastanti, quella sadica di Henri Desgrange, che sognava un Tour in cui al traguardo finale ai campi elisi si presentasse, come unico reduce, il solo vincitore, e quella verso la libertà (e la bistecca) di torme di contadini, manovali e spazzacamini – se proprio la vita dov’essere fatica, che almeno porti a qualche alloro. Le prime rivolte in gruppo, per i diritti dei corridori, fu proprio Bartali a capeggiarle, e quando parlava “i’ Gino” bisognava dargli retta.

A QUESTO GIRO la mannaia sulla tappa non la fanno cadere i corridori, accolti anzi da una bella ottobrata piemontese, dopo l’umido e le polemiche di Asti. La prefettura di Briançon, causa esplosione della pandemia in Francia, ha vietato le manifestazioni sportive sul proprio territorio. L’organizzazione ha supplito inserendo una triplice arrampicata del Sestriere, il colle del diavolo Chiappucci, uomo di fatica e fantasia di cui si sente la mancanza.

Tappa 18° del Giro d'Italia. @LaPresse

Pendenze meno arcigne e altitudini meno aquiline, ma tanto corti sono i distacchi tra chi si gioca la corsa rosa, Keldermann, Hindley (compagni di squadra) e Geoghegan Hart, che il terreno apparecchiato all’ultimo tuffo basta e avanza a garantire la battaglia. Venendo al capitolo dei positivi, stavolta il covid deve cedere il passo al doping, e se ne sarebbe fatto a meno. Fuori Spreafico, 127° della generale: vattela a pesca cosa gli sia passato per la testa.

Delle tre scalate verso la meta, la prima è di rodaggio, anche per il versante dal quale la si affronta, più lieve. La bagarre scatta sulla seconda, ed è una fotocopia esatta di quanto già visto sullo Stelvio: di fronte all’andatura incalzante di Dennis, a favore di Geoghegan Hart, cedono via via i rincalzi, tra cui Nibali e Fugslang.

Subito dopo è la volta della maglia rosa Keldermann a non tenere le ruote dei migliori, mentre al duo vestito di nero resta incollato il giovane Hindley, che ha sia il vantaggio di giocare di rimessa che lo svantaggio di essere, in previsione, meno attrezzato nella crono finale. Un po’ di sollievo a Keldermann lo danno gli uomini di Nibali, riassorbiti dalla fuga di giornata, forse perché più indietro ancora c’è Fugslang e si lotta per la coppa dei meno giovani, con tutto quello che, tra i due, c’è stato nei giorni in cui si pensava fossero loro due a giocarsela a Milano. Ma nella vallata il lavoro di Dennis è mostruoso: il vantaggio lievita oltre il minuto.

Con la crisi di Keldermann, addio ai giochi di squadra e finalmente si assiste, dopo tutti questi giorni, a un testa a testa definitivo. Due, tre, quattro scatti tenta Hindley, e Geoghegan Hart è sempre lì attaccato. Finisce con l’esito più incredibile: Hart coglie l’alloro di giornata, e per la maglia rosa i due protagonisti finiscono, dopo tremila e rotti chilometri, a pari merito.

Partenza della 20° tappa del Giro d'Italia. @LaPresse

QUALUNQUE SIA l’epilogo di oggi, da questo Giro caotico e nebbioso ne viene fuori l’immagine di un ciclismo trasformato. Intanto, si è definitivamente rarefatto il baricentro italo-francese, con la potente appendice belga, che lo ha caratterizzato nel suo primo secolo di storia. Lo si vede bene nel passaggio nelle sponsorizzazioni dalle marche di biciclette e di pneumatici, a quelle di cucine componibili, ai grandi gruppi assicurativi e di telecomunicazioni, dall’epoca dei pionieri su su fino ad oggi. Si può fotografare, attraverso la storia del ciclismo, il dispiegarsi di nuove gerarchie nel capitalismo mondiale, da quando un salumiere brianzolo rendeva possibile le vittorie di Merckx a oggi, che i grandi campioni vengono arricchiti dai fondi sovrani del Kazakistan o del Bahrein.

DI QUESTO SISTEMA più gerarchico ne fa le spese il ciclismo popolare, quello dei gruppi sportivi locali. E ne fa le spese lo spettacolo, ché interesse dei grandi sponsor è il piazzamento, con relativi punti e quattrini, a detrimento dell’impresa matta, che apre le porte alla leggenda come al fallimento. Tant’è che i più nostalgici – o i più realisti? – parlano da anni di salvare l’essenza di questo sport tornando alle competizioni per squadre nazionali. Esperienza già vissuta al Tour a partire dalla metà degli anni ’30, non, come verrebbe da pensare, in omaggio al nazionalismo dilagante in quell’epoca, ma per sfuggire al tatticismo esasperato indotto dalle sponsorizzazioni.

Se oggi viene da riparlarne è perché, proprio come nel resto della società, anche nel piccolo mondo del pedale l’epidemia infierisce sui più piccoli. Quello che rischia di saltare non è certo il carrozzone miliardario del Protour, ma una rete associativa di base che è da sempre la linfa più vitale di questo sport.

È vero, il ciclismo induce al conservatorismo. Ma è proprio il legame ossessivo che mantiene con la memoria di fatiche e di libertà a far scendere ancora la gente per la strada.