Il mito di Sisifo sembra particolarmente adatto a delineare aspetti importanti delle possibilità aperte dopo la positiva esperienza della lista Tsipras. Due sono i motivi più evidenti:
a) si è trattato di un vissuto collettivo che indica con sufficiente chiarezza le condizioni della ripartenza
b) nello stesso tempo la ripartenza si configura davvero, lo dice Omero, come l’operazione di spingere «una rupe gigante reggendo con entrambe le braccia e puntellandosi con le mani e con i piedi».

a) Quell’esperienza, in particolare nella fase della raccolta delle firme (un obiettivo reputato irrealistico), è stata l’inizio di un mutamento nella percezione (ed anche nell’autopercezione) di tutte le identità politiche e culturali che a tale operazione hanno partecipato. Marco Revelli ha scritto recentemente, e lo ha ripetuto nel suo intervento all’assemblea del 19 luglio, che i contributi di quelle identità sono stati, e soprattutto sono, «tutti egualmente preziosi, [E]dovremmo proporci, d’ora in avanti, di non smarrirne neppure uno, per settarismo, supponenza, trascuratezza». Avrebbe scritto e detto le stesse cose il Revelli di un anno fa senza la riflessione che ha fatto, ad esempio, sul ruolo della «task force di Rosa [RINALDI]» in Val d’Aosta?
Supponenza e settarismo non sono certo scomparsi dal nostro orizzonte, ma riguardano tutte le identità che si sono messe in gioco. Nessuna può permettersi di dare lezioni ed anche i professori devono dimenticarsi della cattedra.
Inoltre le linee programmatiche intorno a cui è avvenuta l’aggregazione permettono di dare alla ripartenza un itinerario che si svolge entro confini abbastanza chiari. La proposta di New Deal ha carattere decisamente inclusivo, ma nello stesso tempo indica una scelta precisa. L’insieme delle sue componenti si articola in una griglia che non riflette certo una lettura semplicistica dei meccanismi della lotta di classe, una «lettura binaria», per usare un’espressione dell’ultimo stimolante libro di Domenico Losurdo. Pur tuttavia ognuna di queste è incompatibile con il quadro politico attuale. Il complesso di quelle componenti prevede una «inversione della direzione» reale, non di marketing demagogico-populista. E perciò il New Deal proposto si struttura comunque come insieme di forme diverse (anche diversamente radicali) di lotta di classe.
Si pensi solo alla questione relativa alle trattative in corso per il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (TTIP), cioè alla gabbia di ferro che si sta preparando per fissare definitivamente le classi subalterne europee alla loro condizione, appunto, di subalternità. Una sorta di definitivo punto d’arrivo della lotta di classe dall’alto degli ultimi trent’anni. Si tratta di questione paradigmatica e dunque discriminante. Tutta l’elaborazione che sorregge la proposta del New Deal, infatti, si configura in termini di antitesi sia teorica che politica.
Su tali questioni si definiscono i percorsi ed i loro confini. Ed alla luce di tali questioni il problema dei rapporti con il Pd cessa di presentarsi come un continuo psicodramma. Solo con un’infinita capacità di autoinganno ci si può sbagliare sulla collocazione di quel partito rispetto al grandioso processo di termidoro planetario in corso. E per fare emergere le contraddizioni, che pure ci sono, da un corpo le cui scelte fondamentali sono solidificate tanto nella cultura che nella struttura organizzativa, non servono mosche cocchiere o, come qualcuno ha ultimamente suggerito, anguille inafferrabili. Bensì una vera forza orgogliosa della sua autonomia culturale e politica.
b) Molti compagni hanno messo l’accento sull’importante ruolo che garanti/professori hanno avuto nel progetto aggregativo intorno alla lista Tsipras. Hanno messo anche in rilievo come essere il nostro, il «partito del pensiero» e «del sapere» (ancora Revelli) non solo sia stato rilevante per il primo traguardo raggiunto ma anche per la difficilissima impresa dello spingere la «rupe gigante».

Credo anch’io che si tratti di un’essenziale forza di spinta, come lo è stata nella grande storia del movimento operaio e socialista. Per noi l’intreccio continuo tra elaborazione culturale e prassi politica è una strada obbligata. Le forze dell’establishment non ne hanno bisogno. Per loro ci sono i «serbatoi del pensiero» (Gallino) del capitalismo trionfante nell’attuale fase di accumulazione. Alle forze politiche dell’ establishment è demandata una funzione di servizio e in tale ruolo il cialtronismo semianalfabeta aiuta.
Se, dunque, dalla nostra parte il ruolo dell’intellettuale come specialista + politico mantiene, sia pure in un contesto profondamente diverso, una funzione da cui non si può prescindere, ciò non comporta la traduzione immediata dello specialismo in politica.

Ci sono molte mediazioni tra le due sfere ed i ruoli di direzione politica non possono assolutamente prescindere dal confronto democratico sulla proposta e sull’organizzazione.
Inoltre il «partito del pensiero», proprio perché tale, deve avere chiara consapevolezza che problema centrale della sua riflessione, e soprattutto della sua azione ha come punto di partenza il fatto che la sua proposta elettorale ha intercettato una percentuale irrisoria del voto operaio.
Su questo punto l’elaborazione culturale e politica critica della sinistra è ricca di analisi, indagini sui possibili e nuovi soggetti del mutamento, indicazioni di prospettiva, ma c’è ancora difficoltà a comprendere e sentire fino in fondo il carattere decisivo della questione per il destino del processo di costruzione/ricostruzione in atto.
La giusta attenzione nei confronti del contesto economico e sociale che ha profondamente cambiato i termini in cui si esprime la rappresentanza politica dei subalterni, rischia di sfumare sullo sfondo quella che è stato fenomeno fondante della antitesi sociale dell’età contemporanea: l’unionismo sindacale. La crisi odierna del sindacato è profonda e non vanno assolutamente taciute le stesse responsabilità di tanta parte dei gruppi dirigenti e l’accentuato corporativismo di molte organizzazioni. Tuttavia la contraddizione di fondo tra il lavoro organizzato per difendere tutti gli aspetti della propria dignità e le forze che puntano con decisione alla completa disumanizzazione del lavoro continua ad innervare parte non trascurabile della dinamica sociale.
Questa dimensione dell’unionismo ha perduto ogni referente politico. Anzi Il Pd, che, peraltro, ha fatto dell’abbandono degli operai un elemento distintivo della propria identità, ha, nella fase renziana, maturato la necessità di un esercizio demagogico di antisindacalismo nella logica degli sfondamenti in ogni direzione.

È vero, come ci hanno insegnato i maestri, che ogni lotta sociale è anche lotta politica, ma gli stessi maestri hanno sottolineato con forza che le leggi sul lavoro delle donne e dei fanciulli le vota il parlamento.
La nostra ripartenza non può sfuggire a questo nodo che necessita di una costante attenzione, di riflessione e iniziativa anche organizzativa.
D’altronde nemmeno quella parte dell’unionismo che è consapevole della posta in gioco nella fase attuale dello scontro politico e sociale può esimersi da porsi il problema di una rappresentanza politica. Ed allora deve declinare in modo nuovo la questione dell’autonomia e della divisione netta dei compiti tra sfera sindacale e sfera politica. Ricordiamoci che il più grande e radicato sindacato europeo, quello inglese, quando si accorse di non poter contare più su alcuna benevolenza da parte di qualsivoglia componente della tradizione liberale, prese l’iniziativa di costruirsela la propria rappresentanza in parlamento.
Il peso della «rupe gigante» è tale che nessun può sottrarsi al compito della non rassegnazione. Come ha detto Albert Camus, «anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».