Una cosa Mustafa al-Kadhimi l’ha capita: senza il consenso delle piazze irachene il governo appena nato non durerà. Ottenuta la fiducia del parlamento la scorsa settimana, ha passato i primi giorni da primo ministro a tendere l’orecchio alle rivendicazioni del movimento popolare che attraversa l’Iraq dal primo ottobre scorso: ha ordinato alla magistratura il rilascio dei manifestanti arrestati, ha promesso (di nuovo ieri) di perseguire «i responsabili di uccisioni di manifestanti» e di riconoscere risarcimenti alle famiglie delle vittime e lunedì ha organizzato l’arresto di miliziani sciiti della fazione Thaa’r Allah che il giorno prima avevano sparato sulla protesta di Bassora uccidendo un ventenne.

Volto nuovo solo in apparenza. Perché la natura del neo-governo non cambia la faccia dell’Iraq: figlio dell’accordo tra partiti politici, con il peso massimo di quelli sciiti, ha ceduto alla lottizzazione dei dicasteri. Nessuna fiducia è stata accordata ai ministri chiave scelti da Kadhimi (esteri, difesa, petrolio e finanze), rinviati nelle mani dei partiti stessi che se li distribuiranno come da tradizione post-Saddam.

Per questo le piazze non smobilitano: Kadhimi può promettere ma non è in grado di dare al movimento quanto chiede da mesi, la trasformazione totale del sistema di potere iracheno, fondato su settarismo, clientelismo e corruzione, struttura su cui cresce e si radica una sovrastruttura fatta di diseguaglianze sociali, mancanza di servizi, povertà, disoccupazione.

Da una settimana gli iracheni sfidano le misure di contenimento imposte per il Covid-19 e violano il lockdown per manifestare contro il nuovo governo da Baghdad al sud: marce per riprendere il controllo dei ponti sul Tigri, scontri con le forze di sicurezza. Di questo abbiamo discusso con il giornalista iracheno Salah al-Nasrawi.

Chi è Mustafa al-Kadhimi e quanto spazio di manovra ha in un sistema gestito esclusivamente da fazioni politiche confessionali?

Kadhimi non è parte dell’oligarchia che ha governato l’Iraq dall’invasione Usa del 2003. Era solo un burocrate assunto a capo dei servizi di intelligence nel 2016. Non ha un curriculum ufficiale pubblico, a disposizione c’è solo del materiale di archivio che mostra come non sia mai stato coinvolto nella politica nazionale o negli uffici governativi prima del 2016. Ha lavorato all’Iraq Foundation Memory, autorità creata dall’occupazione americana per confiscare milioni di documenti del regime di Saddam e trasferirli negli Stati uniti. Non ha un’affiliazione politica, anche se è vicino ai leader sciiti. Questo fa capire perché è stato scelto e perché rimarrà ostaggio dei gruppi politici sciiti che lo hanno nominato e delle fazioni sunnite e curde che gli hanno accordato la fiducia. Kadhimi sarà circondato da partiti che non gli permetteranno di lavorare in modo indipendente e contro i loro interessi e quelli delle milizie.

Tra le priorità che si trova di fronte ci sono l’emergenza sanitaria e la crisi economica causata dal crollo del prezzo del petrolio. Qual è la situazione socio-economica dell’Iraq?

È tragica e può diventare devastante. L’epidemia ha esaurito il già carente sistema sanitario. Se i casi di infezione aumenteranno come accaduto in questi giorni, il paese non sarà in grado di curare altre persone e questo provocherebbe il caos. A ciò si aggiunge il crollo del prezzo del greggio che ha ridotto le entrate del governo del 60-70% e che minaccia lo stop delle spese pubbliche essenziali a partire dagli stipendi di sei milioni di dipendenti pubblici. Il governo non è al momento in grado di pagare stipendi e pensioni: si dice che abbia attinto per milioni di dollari al fondo pensionistico per pagare i salari delle forze armate e dei dipendenti governativi.

Il movimento popolare ha ripreso a manifestare, dopo una rarefazione della protesta dovuta al Covid-19. Sarà in grado di ottenere quanto chiede, nonostante l’assenza di una leadership e la mancata partecipazione della comunità sunnita?

L’epidemia ha avuto un grande impatto sul movimento di protesta, costringendo migliaia di manifestanti a casa. Ma non ha spento la scintilla della mobilitazione né posto fine alla rivendicazione di un cambiamento. Moltissimi sono rimasti nelle tende a piazza Tahrir e nei presidi in altre città. In questi giorni hanno acceso fuochi, si sono scontrati con le forze di sicurezza. Resta da vedere se Kadhimi saprà guadagnare la fiducia del movimento iniziando a concretizzare alcune richieste, lotta alla corruzione, creazione di lavoro, disarmo delle milizie e miglioramento dei servizi pubblici. La piazza sta usando il coronavirus per riorganizzarsi e migliorare la propria efficacia: c’è stato dibattito tra i manifestanti sugli errori compiuti in questi mesi di rivolta, tra cui la capacità di allargarsi ulteriormente. Questa fase di rallentamento ha permesso ai manifestanti di imparare una lezione e preparare una seconda fase di rivolta più potente e organizzata. Questo rende il movimento molto più impegnativo per Kadhimi e l’establishment.

Quanto è probabile una guerra tra Usa e Iran? E quanto l’Iraq risente di questa tensione dopo l’omicidio del generale iraniano Qassem Suleimani?

Una guerra di ampio raggio non sembra uno scenario possibile in questo momento, piuttosto schermaglie, missili, attacchi aerei sporadici. L’amministrazione Trump non sembra volere la guerra con l’Iran a meno che questa non aiuti a incrementare il consenso interno danneggiato dalla gestione della crisi Covid. Gli iraniani, da parte loro, sono esausti a causa della pandemia e del crollo del prezzo del petrolio, non sembrano avere abbastanza risorse per una guerra. Ma non vogliono comunque lasciare la presa sull’Iraq, che resterebbe il campo di battaglia di conflitti per procura. Probabilmente Washington tenterà di usare Kadhimi per consolidare la sua presenza nel paese, per questo ha già dichiarato il suo appoggio al nuovo governo. Ma la situazione è più complicata: Washington dà per scontato che Kadhimi avrà successo, lo stesso entusiasmo mostrato per i cinque primi ministri che l’Iraq ha avuto dal 2003. Ma Kadhimi non ha un partito politico alle spalle, né una milizia e questo lo rende molto più debole dei suoi predecessori e dunque più prono all’Iran e ai suoi proxy.