Il re non è nudo, perché la parola nudo nella fiaba non c’è; semplicemente non ha niente addosso. La considerazione che potrebbe cambiare scenari sociopolitici e fiabeschi è del maggiore traduttore italiano di Andersen (e di molti altri autori danesi di prosa e poesia, da Blixen a Hoeg), Bruno Berni che raggiungiamo per parlare di un altro suo lavoro, Fiabe Lapponi, che ha seguito per Iperborea come curatore e traduttore, primo volume di una raccolta di fiabe del nord che comprenderà anche le storie del patrimonio norvegese, danese e svedese. Questa prima raccolta uscita a novembre è subito balzata in cima alle classifiche dei libri più venduti della casa editrice Iperborea capace di conquistare i lettori italiani amanti della letteratura e delle temperature del nord Europa e farli volare fin lì, come succede alle oche selvatiche col piccolo Neil Holgersson.

Se Fiabe Lapponi ha scavalcato nelle vendite Paasilinna c’entra il richiamo del «c’era una volta, in un paese lontano lontano» che diviene irresistibile quando la trama si svolge lassù: la Lapponia è una terra che conosciamo poco perché recentissimo è il suo disvelamento. Come spiega Berni nella postfazione al volume di fiabe, la sua lingua fatta di un insieme di dialetti ugrofinnici anche molto distanti tra di loro, è stata riconosciuta come ufficiale in Norvegia solo nel 1991. Lapponi, Lapponia, anche il nome è fiabesco e goloso – Rodari parlava di Lamponia, amato paese trovato per errore – ma quello giusto è Sapmi (per la regione geografico culturale) e Sami (per il popolo); il primo libro in quella lingua pubblicato nel 1910, Vita del lappone lo ha scritto Johan Turi, un allevatore di renne Sami, e lo ha tradotto Berni. «La Lapponia non esisteva con una sua identità nazionale – spiega – La raccolta dalla quale prendo quasi tutte le fiabe ha una datazione tarda (anni Venti del Novecento) ed è opera di un norvegese, Just Knud Qvigstad».

Lappone o Sami, l’ineffabile popolo che vive distribuito tra contee norvegesi, svedesi, finlandesi e russe non può non stare simpatico ai filoiperborei, perché, citando Berni, «è nordico forse più degli altri ma nomade e da sempre sotto la dominazione di almeno quattro nazioni» e, oltretutto, «mai ha ottenuto, né mai preteso, l’indipendenza politica, tantomeno quella culturale». I Sami sembrano incuranti, remoti e inaccessibili come le regioni che abitano e poi invece pare ambiscano a una nazionale di calcio e, leggendo queste fiabe, viene fuori che ci assomigliano anche nella narrazione pur assegnando significati diversi a contenuti ricorrenti in altre tradizioni popolari. Come osserva Berni infatti, «le strutture e i personaggi sono quelli. Poi la fiaba popolare una volta raccolta ritorna in circolo e passa le frontiere attraverso l’oralità. Perciò per capire i temi bisogna vedere se sono attestati in una data area e cultura».

In Fiabe Lapponi esiste una volpe senza stivali che fa ricco il suo padrone proprio alla maniera del noto Gatto di Perrault; compaiono non solo gatti e volpi, ma anche un ragazzo di legno (non di pino ma di ontano) e una storia familiare di amore e metamorfosi animale (Zampa d’orso) che, senza scomodare Ovidio, suona simile a quella della Donna Bisonte della tradizione dei nativi americani. E, ancora tra i Sami, si narra di un tal Ruobba che fa la guardia a un albero di foglie d’oro, forse nato da un innesto di quello che faceva mele anch’esse 24 carati nella favola dei Grimm L’uccello d’oro. A proposito dei laboriosi fratelli tedeschi, il filo rosso che percorre la genesi delle raccolte di fiabe della tradizione europea è sempre il loro esempio compilatorio.

«I Grimm furono l’inizio, a ruota arrivarono le altre antologie – continua Berni -. In Scandinavia la situazione politica era diversa; la Norvegia aveva ottenuto l’indipendenza politica dalla Danimarca nel 1814 . I quattro secoli di dipendenza avevano portato la lingua norvegese scritta a essere identica al danese. In Norvegia non c’erano università, si dipendeva dalla Danimarca. La pronuncia era differente, ma la lingua scritta non era distinguibile, se non in parte minima. Uno dei primi passi fu la ‘creazione’, da parte di Ivar Aasen, di una lingua basata sui dialetti, il nynorsk (neonorvegese), che oggi è la seconda lingua nazionale (la terza è, appunto, il sami) in uno sforzo di recupero dell’identità nazionale. La Svezia non aveva di questi problemi e lì la raccolta di fiabe, che aveva solo lo scopo di seguire la scia dei Grimm, non ebbe grande successo. Di altro segno, ancora, la situazione della Danimarca: esistono alcune raccolte non scientifiche pre-Andersen, ma quelle più filologiche appartengono alla seconda metà dell’Ottocento. In questo, forse, ha avuto un ruolo la presenza di Andersen, che non rielabora materia popolare, se non in minima parte».

Se Andersen ha in parte inibito la raccolta danese, nessuna inibizione hanno provato i narratori popolari che, in tutto il mondo, sono venuti dopo di lui e da lui hanno preso le mosse. Se da qualche tempo in Italia, tra i più piccoli, è in auge il ghiaccio e si consuma un po’ di ossessione nordica (quella celebrata la scorsa primavera all’ottima mostra di Rovigo sulle opere di scandinavi, tedeschi e svizzeri esposte alle biennali tra Otto e Novecento), lo si deve non tanto a Pippi Calzelunghe o alle camerette dell’Ikea ma un film di animazione Disney, Frozen, ispirato alla Regina delle Nevi di Andersen.
Nulla a che vedere con l’originale, eppure la vicenda dell’algida Elsa sembra serbare la lontana eco di qualche sana peculiarità nordeuropea: l’eroina è maggiorenne, è incoronata regina a inizio storia, non ha un fidanzato a sorreggerla.

Secondo Berni Andersen, in fondo, ne sarebbe stato contento. «La fiaba, e soprattutto quella popolare, sopporta le modifiche, è nella sua natura. Perciò va bene Disney, cui si deve anche un Pinocchio tirolese. La Sirenetta si sposa, è vero, stravolgendo la morale originale. Ma Andersen tollererebbe questi mutamenti. La sua caratteristica è stata quella di creare nuclei narrativi con carattere simbolico forte. Che sono divenuti, nel tempo, persino dei modi di dire: la principessa sul pisello, la piccola fiammiferaia, il brutto anatroccolo, il re nudo. Certo, La Regina delle nevi è una fiaba a cornice che non è mai divenuta simbolica, è una narrazione complessa, per questo sarebbe stato difficile per la Disney trarne qualcosa di diverso».

Nel patrimonio scandinavo a fare la differenza nel successo delle raccolte è il carattere popolare di storie che hanno funzionato quando sono state riportate allo stato grezzo e non elaborate in salsa erudita. «Un conto era la fiaba d’arte romantica, una cosa del tutto diversa era la fiaba ‘popolare’, con la sua rudezza, la sua spontaneità. Le raccolte scientifiche sono dei monumenti, ma non erano destinate al pubblico».
L’obbiettivo della raccolta delle fiabe scandinave è dare un’immagine delle tradizioni popolari nordiche e queste narrazioni, a loro volta, esprimono il modo in cui gli abitanti di quelle terre vogliono essere ricordati: ad esempio, con la figura del Sami arguto che si fa beffe dell’orco un po’ tonto (lo Stallo, proiezione, pare, del norvegese cattivo) e che ricorre in più di una storia, una in particolare vicina a quel Prode Piccolo Sarto dei Grimm, alias Sette in un colpo. Per dare più forza alle immagini evocate Iperborea ha arricchito il volume delle Fiabe Lapponi con le illustrazioni di un artista Sami, John Andreas Savio, scomparso nella seconda metà del secolo scorso: riproducono incisioni di una bellezza nitida e poetica, con scene di vita e paesaggi reali (dove le dimore dei principi sono fattorie), ma così naturalmente mitici da apparire più vicini alla Lamponia rodariana che alla Lapponia propriamente detta, «che se ne sta a rabbrividire lassù alle soglie del Polo».