Nell’Idiota di Dostoevskij il principe Myškin risplende di bontà e bellezza come un nuovo Cristo. L’isola abitata dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij (edito da Carbonio, che sta recuperando uno dopo l’altro i libri di questi autori russi, pp. 360, € 17,50) vede invece l’esploratore spaziale perduto Maksim mantenere la sua indole di bontà anche se sarà costretto a incattivirsi per salvare quel che resta di un pianeta: una santa pazzia lo invade e lo spinge a guidare la ribellione, dimenticandosi la sua condizione di terrestre naufrago, e senza capire – probabilmente – chi sia davvero il nemico.

Le prime righe sono quanto di più stereotipato si trovi nel genere fantascienza: uno spaziale del Grl (Gruppo Ricerca libero) apre l’oblò. Strano però: pensa che «perfino le avventure sono routine». Pianeti ignoti sì ma «ripetitivi e noiosi». Neanche quattro pagine dopo la navicella esplode. Maksim è bloccato in una specie di manicomio: fiumi radioattivi, guerre incomprensibili, popolazione soggiogata e solo una piccola, ingenua resistenza mal organizzata. All’inizio pensa di non «poter giudicare cosa fosse giusto o sbagliato». Ma poi dovrà decidersi.

Cerca di «richiamare alla memoria com’era sulla Terra al tempo delle rivoluzioni e delle dittature». Grandi discussioni sull’intelletto e la coscienza, sulle masse e sull’individuo, ma bisogna agire.

I due fratelli Strugackij erano noti in Italia soprattutto per Picnic sul ciglio della strada (da cui Andrej Tarkovskij trasse il film Stalker), per È difficile essere un dio insieme a poco altro. L’inizio e il finale del libro rompono con gli stereotipi fantascientifici dell’epoca ma per il resto L’isola abitata si muove quasi per intero dentro la letteratura fantastica come era concepita dai migliori scrittori sovietici: non quelli allineati con l’ottimismo di facciata del regime ma coloro che (come i fratelli Strugackij) erano tenuti d’occhio dal regime perché liberi pensatori. Nella postfazione Boris racconta come il romanzo (concepito nel luglio 1967 ma pubblicato solo all’inizio del ’69) si scontrasse con «la macchina statale» che in ogni trama, anzi in ogni parola, vedeva e temeva «allusioni, nessi incontrollati e sottotesti di ogni genere».

Leggendolo oggi, è evidente come avessero ragione i censori: anche in questo romanzo, più «spensierato» del solito, i due Strugackij istigano a pensieri non conformi, criticano (anzi ridicolizzano) ogni totalitarismo e invitano a sospettare dei rivoluzionari diventati burocrati.

E nella nota finale la traduttrice Valentina Parisi ricorda come Arkadij e Boris abbiano esplicitamente camminato sulle strade dell’Utopia «tenendo a bada quanto di incomprensibile e distruttivo vi è nella psiche umana» ovvero «fare i conti con la Scimmia che è dentro ciascuno di noi» (ma anche fuori cioè nella macchina statale) per «ingannarla, esorcizzarla o distrarla».