Il ventaglio di ricostruzioni, piste seguite da giornalisti investigativi, supposizioni e retroscena sull’uccisione di Giulio Regeni offerto dai media italiani inizia ad essere da capogiro.

C’è chi accredita l’ipotesi di una sorta di complotto anti Al Sisi da parte di alcuni apparati di sicurezza egiziani che avrebbero usato il corpo del giovane ricercatore friulano come una bomba ad orologeria per boicottare gli accordi politico-affaristici tra Egitto e Italia. E chi invece considera Regeni una pedina più o meno consapevole dell’intelligence britannica, oppure americana (anche per via della sua passata collaborazione con la società di consulenza Oxford Analytica), scoperto dalla polizia segreta cairota. Oppure, ancora, c’è chi privilegia la pista dell’omicidio compiuto dallo stesso «servizio d’ordine» interno ai sindacati indipendenti che Giulio stava studiando da vicino che lo avrebbero «scambiato» o «riconosciuto», a seconda dei punti di vista, come un pericoloso informatore non si sa bene più di chi.

Insomma, congetture e ipotesi – tali sono al momento – che nell’addebitare una parte di responsabilità allo stesso ruolo di Giulio Regeni, portano contemporaneamente lontano dall’unica cosa certa e universalmente riconosciuta: torture, sparizioni e rendition sono pratiche repressive consolidate del regime egiziano. Tanto che ieri la famiglia Regeni ha voluto porre un limite al chiacchiericcio. E si può immaginare la disperazione di dover intervenire per dire basta, per smentire «categoricamente ed inequivocabilmente che Giulio sia stato un agente o un collaboratore di qualsiasi servizio segreto, italiano o straniero. Provare ad avvalorare l’ipotesi che Giulio Regeni fosse un uomo al servizio dell’intelligence – prosegue la famiglia attraverso una nota diffusa dal suo legale – significa offendere la memoria di un giovane universitario che aveva fatto della ricerca sul campo una legittima ambizione di studio e di vita».

Congetture rifiutate anche dalla stessa università di Cambridge che ieri tramite un portavoce ha fatto sapere che «i metodi usati nel lavoro di Regeni erano metodi standard di ricerca».

D’altronde l’unica voce ufficiale che è ormai dato ascoltare (Renzi, da Buenos Aires, è riuscito solo a sillabare che il giovane ricercatore «è stato ucciso in circostanze ancora tutte da chiarire») è quella dell’ambasciatore egiziano a Roma, Amr Helmy, che ancora ieri ha continuato a ribadire che Giulio «non è mai stato arrestato dalla sicurezza egiziana» e a smentire che le autorità egiziane siano «coinvolte nella tortura e nella morte del giovane e queste non sono collegate né agli apparati di sicurezza egiziani né ad alcuni membri indisciplinati o disobbedienti degli stessi apparti di sicurezza». «L’Egitto non ha nulla da nascondere», affermava l’ambasciatore proprio mentre alcuni attivisti egiziani diffondevano on line i documenti processuali che riguardano il capo della polizia incaricato delle indagini sull’omicidio Regeni a Giza, Khaled Shalaby, condannato nel 2003 con pena sospesa per non aver impedito la tortura e l’omicidio di un detenuto.

Ma, come ha spiegato ieri l’ex ministro degli Esteri Emma Bonino parlando al GR Radio Rai, le torture inflitte dai «molti servizi di polizia che non sempre si parlano tra di loro» o dai servizi segreti, o da «squadre o squadroni più o meno ignoti», nelle caserme o nelle «carceri cosiddette private, di cui non si sa neanche l’indirizzo», erano note anche prima. «E non è che le cancellerie abbiano reagito con qualche severità nei mesi scorsi. Io capisco – ha proseguito Bonino – che l’Egitto è un partner importante per molte cose, ma anche l’auto censura totale a mio avviso non ha mai aiutato nessuno».

Ieri però da Giza è arrivata la prima notizia di collaborazione vera tra inquirenti italiani ed egiziani anche se secondo la procura locale gli «italiani partecipano alle diverse tappe dell’inchiesta» e «sono informati di tutti gli sviluppi del caso». (Mentre, secondo La Stampa, le due autopsie eseguite a Roma e al Cairo sarebbero talmente in contrasto da richiedere una terza super perizia per confrontare i referti dai test eseguiti sui resti del giovane). La polizia cairota avrebbe convocato, presenti gli uomini del Ros e dello Sco, due nuovi testimoni: due inquilini del palazzo dove abitava Giulio, ascoltati per trovare conferma alle testimonianza di chi avrebbe visto nei giorni precedenti il sequestro, degli uomini curiosare all’interno dell’immobile e chiedere notizie del ricercatore italiano. La procura di Giza ha anche fatto sapere di aspettare «sempre i risultati delle indagini condotte dalla polizia e, in caso di novità, tutto sarà annunciato all’opinione pubblica».