La musica di un pianoforte, una stanza in disordine, mutandine e reggiseni. In cucina, tra una pila di piatti da lavare e cartacce da buttare, la piccola Tomo (Rinka Kakihara) divora in silenzio l’ennesimo onigiri confezionato. È lei la protagonista di Karera ga honki de amu toki wa – Close-Knit il titolo internazionale (Panorama) di Naoko Ogigami, già passata dalla Berlinale anche in passato con altri tre film, tra cui quello di debutto Barber Yoshino.

Tomo deve prendersi cura di sé da sola, la madre è quasi sempre assente, beve molto e a malapena riesce a svegliarsi al mattino per salutare la figlia prima che vada a scuola. Un giorno, improvvisamente, come già altre volte in passato, non torna più a casa ed è a questo punto che la ragazzina si rivolge allo zio Makio (Kenta Kiritani) che, molto volentieri l’accoglie in casa, ma l’avverte: «Ora vivo con qualcuno. Qualcuno di insolito», la sua ragazza transgender Rinko (interpretata da un uomo, l’attore Toma Ikuta).

L’iniziale fredda accoglienza da parte di Tomo nei suoi confronti viene ben presto cancellata dai modi dolci e materni di Rinko. Dalle cene e i pranzi preparati con amore, al tempo trascorso insieme a giocare ai videogiochi, a pedalare in bicicletta e a coccolarsi. Tutti aspetti che sono sempre mancati nella vita della protagonista e che potrebbero farci pensare che la femminilità possa esprimersi solamente attraverso azioni da casalinga, come appunto cucinare, pulire e prendersi cura dei figli.

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Ma sarebbe una visione troppo semplicistica del film. La felicità ritrovata all’interno del nido creato dai tre personaggi, deve però far presto i conti con gli attacchi esterni, dalle prese in giro dei compagni di classe, al duro giudizio da parte della madre di uno di loro, fino ai servizi sociali che piombano all’improvviso perché la casa dove vive non è un ambiente salutare per una bambina della sua età. Offese e insulti rendono Tomo nervosa e aggressiva fino a quando decide di rendere proprio l’insegnamento di Rinko: lavorare a maglia per incanalare la rabbia e la frustrazione.

È quello che le ha insegnato la madre e che lei fa da sempre, da quando era una ragazza intrappolata nel corpo sbagliato. E che continua a fare, visto che la vita non è facile, almeno nel rapporto con la società e con l’altro, fino a coinvolgere compagno e «figlia» nel suo grande progetto personale: realizzare 108 peni di lana che andranno poi bruciati in un rito purificante per liberarsi definitivamente della sua identità maschile.

È su questi aspetti che si concentra di più il lavoro della regista, nel trasmettere l’idea che una famiglia non convenzionale, se così può essere definita, come la loro, sia in realtà uguale a tutte le altre, in cui si fanno le stesse cose, da pedalare sotto ai ciliegi in fiore, ad andare in gita al mare, ma che soprattutto fanno una cosa non così scontata: volersi bene. Essere affiatati e prendersi cura l’un l’altro, come suggerisce il titolo, che rimanda anche al lavoro della maglia. Naoko Ogigami realizza un film empatico, delicato ma anche divertente, su un tema attuale come quello dei diritti lgbtq e delle donne.

Un lavoro originale, tratto da una storia vera letta sul giornale Asahi Shimbun di una madre che regala alla figlia transgender un seno fatto a maglia prima della sua operazione, che dà speranza anche al Giappone, un paese che tradizionalmente evita di trattare la questione omosessuale.