Il rapporto tra il diritto moderno e la famiglia appare piuttosto paradossale, dicono Maria Rosaria Marella e Giovanni Marini, due esploratori attenti del diritto privato, interno e comparato, nel loro Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia (Laterza, pp. 137, euro 12). Paradosso che potrebbe essere sintetizzato così: quanto più la famiglia viene presentata come sfera preservata, «originaria» e pregiuridica, tanto più, e proprio in nome di questa sua presunta naturalità, la famiglia funziona come «uno straordinario strumento di governo della società».
Il libro offre una sintetica ma precisa genealogia di queste tensioni. La dogmatica giuridica, nell’Ottocento, costruisce una veste sistematica per l’ambiguo rapporto tra Stato e famiglia: ne nasce il fondamentale principio della «specialità» del diritto di famiglia. Nella fase del pensiero giuridico classico, è infatti von Savigny, a distribuire le carte fondamentali del diritto di famiglia. La famiglia deve essere sottratta al diritto comune patrimoniale. Quest’ultimo varrà per regolare (e santificare) il mercato e la proprietà; la famiglia avrà invece un regime «speciale», perché lì si tratta non di mercato e di traffici, ma di tradizioni, di storia, di «spirito del popolo». Ma questa sottrazione alle regole del mercato è una evidente maschera ideologica: lungi dal distinguersi, l’organicismo familista e la proprietà individualista, da lì in poi, si rafforzeranno a vicenda.
Il libero mercato ha bisogno di un luogo di produzione disciplinare dei soggetti: la sfera speciale familiare affianca e rafforza la costruzione del diritto proprietario. Marella e Marini qui mostrano bene come non c’è comparazione giuridica seria che non comporti, per il giurista, il confronto con il colonialismo. Allargando lo sguardo alle colonie, infatti, si comprende, molto meglio che in qualsiasi storia del diritto europeo, come ha realmente funzionato questo dispositivo: la specialità del diritto di famiglia è la chiave perché i colonizzatori possano mantenere in piedi, almeno formalmente, gli istituti familiari locali, in nome della tradizione e della storia, e, contemporaneamente, proclamare l’universalità del diritto patrimoniale, in nome della nuova razionalità giuridica borghese e coloniale.

In nome della nazione

Dalla fine dell’Ottocento in avanti, il pensiero giuridico liberale classico lascia il posto ad un utilizzo molto più intenso del diritto come strumento di organizzazione e di trasformazione del sociale. Il pubblico conquista il centro della scena, e la famiglia comincia ad apparire nelle Costituzioni quale cellula base della società. La Costituzione di Weimar del 1919 proclamerà il matrimonio «fondamento della vita della famiglia, e del mantenimento e potenziamento della nazione»: ma, proprio in nome del superamento dell’individualismo liberale e dell’intensificarsi delle funzioni di pianificazione dello Stato, la famiglia vedrà al tempo stesso riaffermata e trasformata la sua specialità. Nel diritto di famiglia si rivelerà così in tutta evidenza l’anima disciplinare dello stato sociale: nella complessa strategia dello Stato-provvidenza, la famiglia non è più il luogo «speciale» in cui ammortizzare alcune controindicazioni dell’individualismo proprietario, ma si trasforma direttamente in una delle fabbriche che contribuiscono a forgiare il «soggetto produttivo». Allo stesso tempo, anche le élites postcoloniali manterranno, pur nel nuovo quadro aperto dai movimenti di indipendenza nazionali, la specialità del diritto di famiglia: principio che poteva sempre venir buono come modalità di compromesso tra modernizzazione e tradizione, o, più concretamente, tra le nuove élites nazionali e il clero.
Ma questa simbiosi tra famiglia e sociale, tra disciplina e welfare, è rotta, dagli anni Sessanta in poi, sia dall’alto, per l’impatto delle politiche neoliberali, sia dal basso, per la crisi del suo modello fondante di soggettività, quella incentrata sul «buon padre di famiglia», maschio, eterosessuale e breadwinner solidamente integrato nel mondo produttivo e nel lavoro salariato.
Nell’epoca neoliberale, il rapporto tra diritto e famiglia si pluralizza così in una serie di dispositivi differenziati e spesso contradditori. Per un verso, sembra prevalere una decisa individualizzazione del diritto di famiglia: si afferma il linguaggio dei diritti dell’uomo e, di conseguenza, della subordinazione della tutela della famiglia alla dignità della persona. Ma, contemporaneamente, il neoliberalismo non rinuncia affatto alle politiche identitarie: l’essere dentro o fuori dalla famiglia «riconosciuta» continua a funzionare come dispositivo essenziale per ordinare gerarchicamente la società. Lo stesso riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso, che si fa strada in diversi ordinamenti giuridici, è in fondo specchio di questa contraddizione; da un lato, fa vacillare l’eterosessualità quale pilastro tradizionale dell’ordine familista, ma, dall’altro lato, ricordano gli autori, finisce per rafforzare proprio la centralità del matrimonio, riaffermando l’immagine della famiglia tradizionale. Il neoliberalismo, in ogni caso, ha buon gioco nel difendere la famiglia come erogatore «sussidiario» di servizi e come formidabile meccanismo di selezione per decidere chi è davvero degno di accedere alle risorse residuali.

Oltre la monogamia

La sfida all’ordine familistico però resta aperta. E gli autori la vedono lanciata soprattutto dalle nuove forme dell’affettività che nascono oltre e contro il modello familiare: contro l’eterosessualità normativa, ma anche contro la stessa idea di «coppia». Il libro non a caso si chiude sulle sperimentazioni portate avanti dai movimenti del poliamore, che, criticando l’imperativo dell’esclusività monogama obbligatoria, producono nuove forme di vita, nuove modalità del vivere insieme. E ci sarebbe ancora da allargare la prospettiva alle varie sperimentazioni del coabitare – oltre il modello dell’abitazione chiusa alla famiglia nucleare – che si producono dal basso e all’interno delle macerie del welfare tradizionale, e all’inclassificabile tessitura affettiva che questi modi della condivisione producono. Se il diritto di famiglia è stato il luogo in cui identitarismo, disciplinamento e sacralizzazione della proprietà si sono stretti la mano, è significativo che la sfida più forte la riceva da nuove forme del convivere, spesso precarissime ma che, proprio in forza di questa loro precarietà, sanno sperimentare modalità di fuga inedite contro la cattura da parte della proprietà e dell’identità. Ed è altrettanto significativo che questi nuovi laboratori affettivi del comune ci siano qui ricordati da giuristi che sanno che oggi non può esservi critica del diritto che non sia radicata nell’analisi della produzione di soggettività: vale anche come ottima affermazione di metodo.