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La famiglia di Stefano Cucchi dice no al perito nominato dal gip: «È di parte»

La famiglia di Stefano Cucchi dice no al perito nominato dal gip: «È di parte»Ilaria Cucchi mostra la foto del cadavere di suo fratello, Stefano

Roma L'avvocato Fabio Anselmo: «Stiamo valutando la possibilità di presentare un’istanza di ricusazione del medico vicino a La Russa»

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 24 dicembre 2015

«Stiamo valutando la possibilità di presentare un’istanza di ricusazione del collegio peritale che dovrà eseguire l’incidente probatorio». È provato ma non rassegnato, l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. L’ultima delusione è stata la scelta dei periti nominati dal gip Elvira Tamburelli che dovranno pronunciarsi nuovamente sulle cause della morte di Stefano Cucchi.

«Siamo molto stanchi, la famiglia è sfiancata da sei anni di serrate battaglie giudiziarie, sei anni a lottare per far emergere la verità che è stata ostacolata fin dall’inizio, con l’allora ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che affermava: “Di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione”. Aspettiamo ovviamente ancora le scuse», si sfoga Anselmo.

Nel settembre scorso, finalmente, con una nuova perizia di parte riuscirono a dimostrare che Stefano quando morì aveva la terza vertebra lombare e la quarta vertebra sacrale fratturate «di recente» e in modo «assolutamente contestuale», come ha appurato il prof. Carlo Masciocchi, presidente della Società italiana di radiologia.

«Il quale però è stato ascoltato come testimone e non come perito – continua Anselmo – E ora, dopo tutto questo, ci ritroviamo nel collegio peritale proprio il dott. Francesco Introna, molto vicino a La Russa e anche a Cristina Cattaneo, il medico legale che firmò la prima perizia d’ufficio sul corpo di Stefano, quella in cui non c’era alcuna traccia delle vertebre fratturate di recente. E allora diciamo no, noi non ci stiamo, perché già sappiamo come andrà a finire». La decisione della famiglia di Stefano Cucchi è di rinunciare a partecipare all’incidente probatorio, che in ogni caso comunque verrà eseguito se non sarà presentata – e accolta – un’istanza di ricusazione di almeno uno dei periti.

Ci sono poi altri particolari che emergono dall’ordinanza del gip. Il primo, riferito ieri da Repubblica, riguarda il verbale del maresciallo Enrico Mastronardi, comandante della stazione di Tor Vergata. Qui il giovane venne trasferito, la sera del 15 ottobre 2009, dopo l’arresto e il transito nella stazione Appia (dove secondo i pm avvenne il pestaggio) comandata, allora, dal maresciallo Roberto Mandolini.

Testimonia Mastronardi: «Mandolini mi disse che il generale Vittorio Tomasone (allora comandante provinciale a Roma, oggi della scuola ufficiali dell’Arma, ndr) lo aveva convocato per avere particolari in relazione alla vicenda», scrive Repubblica. Un particolare che se fosse riscontrato andrebbe a supportare la tesi della procura di Roma che nella richiesta di incidente probatorio afferma: «Fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dai carabinieri appartenenti al comando stazione Appia».

Mandolini però non dice sempre il vero. Il Corriere della Sera ieri riporta il contenuto di una telefonata intercettata nel luglio scorso nella quale il comandante Mandolini avrebbe rivelato ad una sua interlocutrice che Cucchi era stato in altre occasioni un collaboratore dei carabinieri e avrebbe rivelato il nome di atri spacciatori. Un particolare che avvalorerebbe la tesi – piuttosto stramba, a dire il vero – del pestaggio avvenuto per far parlare di nuovo Cucchi. «Mandolini sa di essere intercettato e mente – smentisce Anselmo – intanto perché fu la famiglia e non i carabinieri a trovare la droga in casa di Stefano e a consegnarla alle autorità. E soprattutto perché Cucchi era appena uscito da una comunità per tossicodipendenti dove aveva vissuto due anni, quindi non avrebbe potuto essere un collaboratore».

In ogni caso, la violenza esercitata dalle forze dell’ordine su un detenuto per estorcere informazioni si chiama – secondo l’Onu ma non in Italia – tortura.

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