E’ tornato al teatro “Lo spazio” in questi giorni, dopo il debutto di quest’inverno all’”India”, il trascinante spettacolo del gruppo di attori ex detenuti diretto da Valentina Esposito: Famiglia. Un testo slegato, scomposto, urlato e segreto al tempo stesso, in cui circolano e si combattono le forze tutte italiane di un’aspirazione a valori erosi dalla Storia, a riti che si frantumano e si rianimano a seconda delle vicende tortuose della vita dei singoli, sempre alla ricerca di punti di riferimento che appaiono e subito scompaiono.

Lo spettacolo inizia con un’invocazione al padre da parte di un personaggio dell’ultima generazione, che è grido di un bisogno e rimprovero di una mancanza. Desiderio e insieme accusa di un’assenza, e subito dopo evocazione della coppia originaria in cui tutti si identificano, una coppia ormai defunta i cui fantasmi recano memorie di miseria e di fame, ma anche quella spinta vitale che dalla Calabria contadina punta su Roma, vista come meta e crogiuolo di aspirazioni ad una vita migliore.

Il padre di questa coppia pronta a tutto, che sembra un proiettile deciso ad andare lontano, è Maurizio Fonte, attore lanciato da Matteo Garrone con il film Dog man, alla guida di un camion con accanto la moglie incinta che rischia di partorire per le asperità della strada. La sua energia è inversamente proporzionale alla sua statura. Parla – anzi grida – entusiasticamente delle mete che vuol raggiungere e di tutto ciò che può offrire la grande città. La musica, simile a certe altisonanti sinfonie popolari che creano ancora oggi il pathos di antichi riti religiosi del sud, enfatizza l’impeto di una scelta divenuta “archetipa” ai nostri giorni: l’abbandono delle usanze tradizionali, che significa anche abbandono della miseria e conquista di civiltà, ma che conserva tra molte contraddizioni e antichi rituali di rispetto, la struttura familiare, unico schema in cui tutti si riconoscono, al di là delle insofferenze, delle liti e delle contraddizioni.

Nel testo, frutto di racconti della vita reale degli attori, assemblati da Valentina Esposito come su una grande tela, un affresco grande come la vita, emergono le liti, scoppiano le contraddizioni e i rancori che solo la struttura familiare riesce a contenere, che solo i vincoli di sangue alla fine tengono insieme. E ciò avviene attraverso la parola, elemento di base sul quale la Esposito ha fondato il suo teatro, la cui ultima finalità si chiama “riparazione”. Riparazione, attraverso il racconto, delle vite distorte e sfiancate dei suoi attori, che è recupero di una socialità e di un lavoro “normali” la cui motivazione di fondo sta proprio nella vita reale di ciascuno.

Nel suo intervento al Teatro Abarico nell’ambito del convegno La pedagogia nel Teatro Sociale, tenutosi a Roma dal 10 al 12 u.s. alle Ex Vetrerie Sciarra, dopo aver mostrato alcuni filmati delle prove dello spettacolo, che mettevano in evidenza il suo lavoro sulla motivazione profonda del gesto e della parola, Valentina Esposito ha insistito, nel racconto della sua pluriennale esperienza con detenuti ed ex detenuti, sull’importanza del vissuto da portare alla luce, di un “gancio”capace di tenere emotivamente i suoi attori legati alla proposta di parlare, di esibirsi, di raccontare di sé unendo le singole esperienze in una sorta di storia collettiva.

E credo che proprio da questo attingere all’esperienza personale di ciascuno nasca la forza coinvolgente dello spettacolo, che mette in scena il matrimonio di Viola, ultima erede della famiglia, quando il capostipite e sua moglie sono ormai fantasmi, ancora attratti e coinvolti però dalle gelosie, dalle polemiche, dall’incompiutezza dei destini di ognuno, che sia il fratello che ha fatto fortuna in America e che paga la festa di matrimonio, o il nipote in cerca di un padre, o il padre della sposa – a sua volta figlio dei fantasmi – ormai avanti negli anni, che si sente spodestato dal suo ruolo per la rivalità con lo zio d’America.

Sul grande circo in festa della famiglia, con una felice intuizione della costumista Maria Giovanna Caselli, lievita il bianco velo della sposa, che si fa volta a volta schermo tra i personaggi, trait-d’union tra zia e nipote, torta nuziale che tutti desiderano e sprecano, panna macchiata dal rosso delle fragole, e alla fine annuncio di sangue, quello versato in seguito a un incidente del camion che ha reso per sempre invalido uno dei figli. Lo spettacolo parla di vite sprecate nella rivalità e nella lotta tutta maschile per il predominio e l’esibizione del successo. I figli maschi che litigano e si picchiano nel camion, alle spalle dei genitori, sono in realtà la parte più consistente e contraddittoria di questa famiglia che, al di là di ogni controversia, esiste e si mostra in tutta la sua violenza paradossalmente coesa e contraddittoria.

Le figure femminili appaiono invece come il collante e l’ornamento, il rifugio silenzioso e materiale, vigile e cosciente, di una vita che scorre malgrado i suoi protagonisti e che, paradossalmente, si prolunga nella morte senza soluzione di continuità. Sembra incredibile che, dai vissuti in realtà difformi ed eterogenei dei suoi attori, le capacità maieutiche di Valentina Esposito siano riuscite a trarre un racconto dallo stile raffinato ed omogeneo, in cui la realtà della crescita e dello sradicamento, della fuga e dell’avanzare verso un futuro incerto, che sono caratteristici del nostro presente, hanno trovato una configurazione simbolica di grande impatto estetico e drammatico.

La denominazione di Fort Apache del gruppo messo insieme dalla regista, anomalo per la mancanza di qualsiasi sovvenzione, sta ad indicare una collaudata collaborazione di lavoro che spazia dal teatro al cinema ed assicura alla compagnia una sopravvivenza che può essere definita “miracolosa”, fatta di contatti svariati e felici combinazioni.