Vittorio Lingiardi, psichiatra, professore ordinario di Psicologia dinamica alla Sapienza di Roma e, fino al 2013, direttore della Scuola di specializzazione in Psicologia clinica, ha curato numerose traduzioni, articoli e monografie sul tema dell’omogenitorialità e, più in generale, dell’orientamento sessuale. Lo abbiamo incontrato per porgergli qualche domanda.

In «Citizen gay» (Il Saggiatore) sostiene che serve a poco inchiodarsi tra gli anatemi contro la «famiglia omosessuale» e le varie e automoderate «concessioni alla diversità» in un mondo che è già cambiato, si tratta di aprirsi alla trasformazione. Qual è il nodo simbolico che va sciolto?

L’idea che esista solo un tipo di famiglia e un solo tipo di filiazione. La storia e le geografie culturali ci hanno mostrano che tanti sono i modi in cui gli umani organizzano la loro tendenza a creare legami di attaccamento e continuità. La trasformazione culturale che va assunta è, quindi, non a detrimento delle «forme tradizionali» bensì aggiunge elementi di novità e ricchezza. Tali novità, come dimostrano moltissimi studi scientifici, non producono nocumento psicologico e sociale ma al contrario rinforzano il tessuto affettivo e culturale, introducendo varianti senza danneggiare nessuno.

 

Gay-Climbing-Groom-and-Helpful-Groom-Mix--Match-Cake-Toppers-

 

Come psichiatra e psicoterapeuta, è certo che una regolamentazione che riconosca a gay e lesbiche le unioni e i matrimoni contribuirebbe a «prosciugare la palude, psicologica e sociale, in cui prolifera l’omofobia». Una legge in materia avrebbe dunque effetti positivi ma, come indica, è un contributo e non l’intero. Che cosa si può ulteriormente fare sopra e fuori la legge?
Il mio approccio è quello di avvicinarsi al tema delle famiglie omogenitoriali e, più in generale, al riconoscimento della dignità delle persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali, non solo in una prospettiva legale e giuridica – comunque fondamentale – ma anche con un processo che nasce dall’esperienza quotidiana, dalla reale curiosità – quando la si ha – nel conoscere e osservare vite, desideri e gusti diversi dai propri. Il grande discrimine non è tra maschi e femmine, oppure tra omo ed etero: tutte le esistenze sono attraversate da soglie che variano e differenziano le nostre esperienze.

Il 22 gennaio su «Libération», Paul B. Preciado è intervenuto per commentare il suicidio a Barcellona di Alan, un diciassettenne transessuale che è stato vittima di bullismo. Ciò apre a una questione scomoda e necessaria da affrontare visto che la omo-lesbo-transfobia si riproduce proprio nella scuola, che diventa un teatro di angherie indicibili. Preciado utilizza non a caso l’espressione «assassinio sociale». Lei ha curato l’edizione italiana di «Bullismo omofobico» (Il Saggiatore) di Ian Rivers a significare che il tema della violenza nell’esperienza scolastica è cruciale…

L’espressione di Preciado è forte ma coerente con quello che io riscontro nella pratica clinica. Che sia un bullismo riferito al genere e alle sue declinazioni o un bullismo verso l’orientamento sessuale e le sue espressioni, aggredisce e pugnala il cuore di una soggettività che sta cercando il proprio percorso in tema di sessualità e affettività. Non mi stupisce che ciò possa produrre, in alcuni casi estremi, dei suicidi e nella stragrande maggioranza dispersione scolastica, sindromi ansiose, risposte depressive. Per questa ragione, è importante una cultura del dialogo, una sensibilizzazione alle nostre infinite varietà. È un punto su cui concordano tutti, dall’Oms all’Unicef, mentre la scuola italiana è ancora arretrata. La vera ideologia la fa chi si scaglia contro gli interventi scolastici tesi a sradicare il bullismo omofobico, richiamandosi a una presunta «ideologia del gender» che come sappiamo non esiste ed è, questa sì, una costruzione creata ad arte.

Riguardo le costruzioni strumentali, ce n’è anche un’altra contraria all’omogenitorialità e che recita più o meno così: «È contro l’interesse del bambino». Secondo lei, a un’opinione simile, è sottesa un’idea astratta e ideologizzata di bambino. Cosa significa?

Penso che si debba partire dalla realtà e non dall’imposizione della propria visione del mondo; fermo restando che la genitorialità può essere buona o cattiva a prescindere dal prefisso omo ed etero che la precede. Esistono già gay e lesbiche che sono genitori o da precedenti relazioni eterosessuali o perché, da omosessuali, hanno intrapreso un percorso di genitorialità. Quindi le persone omosessuali hanno figli e figlie. Chiediamoci se è nell’interesse del bambino il mancato riconoscimento giuridico e simbolico delle loro strutture famigliari, lasciandoli in una condizione di cittadinanza inferiore, di mancanza di tutele. Credo che l’interesse di un bambino o di una bambina sia piuttosto che venga riconosciuta la loro famiglia. Non si può cancellare una identità affettiva e sociale.

Quando ha presentato il suo libro le è stata posta una domanda che le rigiriamo: perché vuole dei «citizen gay» e non dei «nomadi queer»?

È una domanda a cui sono molto legato e che ciascuno di noi dovrebbe portare dentro di sé, perché quando chiediamo diritti come il matrimonio non stiamo inseguendo un conformismo e un riconoscimento da parte di uno «Stato-genitore-buono», bensì una possibilità. Sono altrettanto fermo nel riconoscere la libertà di chi vuole costruire la propria storia affettiva con le pratiche e i legami che crede più efficaci e corrispondenti per sé, quindi queer e nomadismo ben vengano, se tuttavia si profilano in un contesto che garantisce pari opportunità a tutti.

Mi viene in mente Piergiorgio Paterlini quando dice di non vedere l’ora che venga riconosciuto giuridicamente il matrimonio tra persone dello stesso sesso per poter finalmente schierarsi contro l’istituzione matrimoniale.