La parola famiglia dà luogo spesso a un equivoco concettuale. Appena viene pronunciata, esclude immediatamente il mondo esterno e lascia immaginare una serie di individui legati fra loro da fattori biologici, patti d’amore (ma anche economici), necessità di cura. È una di quelle parole che alza muri, pareti domestiche per l’esattezza. Eppure, se analizzata nelle sue stratificazioni, può una «intersezione» vivente, un crocevia di storie. Parte da qui la mostra ospitata presso il Centro di cultura Contemporanea La Strozzina di Firenze (visitabile fino al 20 luglio, a cura di Franziska Nori e Riccardo Lami). Già nel titolo, squarcia l’idea monolitica puntando su quel Questioni di famiglia che tende a problematizzare l’insieme e ad avventurarsi lungo altri sentieri. Per gli artisti, infatti, è da sempre un tema indagatissimo – nelle sue innumerevoli apparizioni letterarie, cinematografiche o approdi provocatori. Il campo è minato.

Essendo l’argomento sconfinato – famiglia di fatto, di sangue, allargata, surrogata, arcobaleno – l’esposizione fiorentina ha dovuto scegliere un punto di vista privilegiato e ha cercato un’angolazione «classica» per poi procedere verso esplorazioni libere: la riflessione che fa da fil rouge alla difficile (e, quindi, coraggiosa rassegna) è il genere del ritratto.

Quale rappresentazione dare oggi della famiglia? Luogo privato degli affetti, albero genealogico che stringe alleanze o le rompe clamorosamente fra giovani e più anziani, status sociale in declino oppure potenziato dalla crisi? Gli undici artisti invitati a fare una ricognizione «dal vero» rispondono a modo loro e spesso, anzi, non rispondono proprio. Divagano, decostruendo il «modello primario», eludendo l’autoreferenzialità e mettendo in scena le relazioni private come fatti pubblici. Naturalmente, senza ordini normativi a «reggere» le relazioni né cornici simboliche rassicuranti (o inquietanti) come il matrimonio, il rapporto di coppia, le capacità genitoriali, il desiderio di procreazione, a regolare la convivenza delle persone che si scelgono.

La fotografa americana Nan Goldin ha creato un album della vita collettiva di una intera generazione narrando la quotidianità della passione, del dolore, malattia, maternità e paternità. Amanti, violenze, droghe e l’innocenza dei bambini (in mostra danzano felici come Orlando e Lily, oppure dormono abbandonati fra le braccia dell’adulto, come Misha) formano un mosaico esistenziale terso e privo di infingimenti. I ricordi si mescolano al presente, entrano nell’inquadratura e producono una narrazione parallela, che viene sottolineata anche dalla colonna sonora che l’artista accuratamente seleziona. La sua Ballad della dipendenza sessuale è divenuta, negli anni, un malinconico inno alla vita che alza il sipario sul passare inesorabile del tempo.

La francese Sophie Calle taglia via il soggetto e lascia affiorare soltanto una traccia. In una anonima scritta metaforica che insiste sul ruolo sociale e non sul soggetto: sulla tomba ci sono father, mothe e son. Un trittico del lutto da elaborare, ma anche un memento mori. La composizione conserva in sé i semi dello straniamento e presenta il grado zero dell’identità, scarnificandola, facendola rintanare nel fantasma che si nasconde dietro ognuna di quelle abusatissime parole. Proprio Calle aveva dedicato una delle sue installazioni più belle alla morte della madre. Le ha reso un affettuoso omaggio con una registrazione diaristica dei suoi desideri terminali (vedere il mare, il pedicure, l’epitaffio, la musica) e di un sorriso, l’ultimo.

Alle surreali apparizioni di Hans Op de Beck che sospende figure in ambienti bianchi, fuori fuoco, come se fossero personaggi disorientati capitati in una casa infestata di ghosts (è, in fondo, la materializzazione dell’idea di Roland Barthes nella sua Camera chiara), si oppone – concretissima – la serie Familienleben del tedesco Thomas Struth. Il suo è un progetto con mire scientifiche, nato dalla collaborazione con lo psicoanalista tedesco Ingo Hartmann. Gli ha chiesto di realizzare alcuni ritratti in serie di famiglie per avere uno strumento terapeutico e comparativo fra le mani, un campo magnetico dove le varie forze interagiscano, attraendosi o respingendosi l’un l’altra. Struth, poi, ha continuato da solo, riprendendo le famiglie degli amici. Nessuno posa in maniera ufficiale, ognuno spontaneamente decide come immaginarsi e creare un «tipo». «Mi piace rappresentare la dinamica del gruppo in quel momento», dice l’artista.

Ha agito al contrario l’irlandese Trish Morrisey: all’inizio, l’ambiente da investigare era autobiografico, la casa dei suoi, la sorella, il quartiere di Dublino; in seguito, ha realizzato foto insieme alla figlia, infine ha operato dando spazio alla casualità, ritraendo famiglie incontrate in spiaggia, in momenti di relax da rigidi ruoli. Anche il loro look è ridotto al minimo, così da non dare informazioni sull’identità e omologando qualsiasi persona.

Per Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini, «famiglia» significa innanzitutto un gioco ambiguo fra realtà e finzione, è un «oggetto» a metà virtuale e a metà materiale, atmosfera acustica e vuoto affettivo. I visitatori vengono introdotti su palcoscenici disfunzionali in cui l’unico dato evidente è la sparizione dei soggetti che abitano le stanze: se ci sono, il loro silenzio ostinato rovescia la comunicabilità e l’idea di relazione stessa. Infine, l’operazione di John Clang (Singapore) è la più radicale: va a sbirciare nell’interregno che lega e separa le famiglie; la geografia che le allontana di chilometri viene ridotta in una proiezione, invertendo i termini di assenza e vicinanza.