E’ un’abile operazione di marketing culturale quella che ha vestito i custodi della mostra «A.B.O. THEATRON. L’Arte o la vita» che il Castello di Rivoli dedica fino al gennaio 2022 alla carriera dell’istrionico storico dell’arte Achille Bonito Oliva. Abile perché ha subito scatenato commenti non benevoli e, quindi, attirato l’attenzione. Disegnate da Alessandro Michele per Gucci, sponsor della mostra, le divise sono un completo giacca/pantalone in fresco di lana color salvia dal taglio oversize e morbido, con orli leggermente corti, accompagnati da maglietta e calze bianche, mocassini neri e, cucita sul petto, una targhetta di tessuto bianca bordata di rosso e con ricamato dentro «A.B.O. Jarinier du théatre».

L’INTENZIONE è quella di valorizzare il ruolo del custode rendendolo visibile lungo tutto il percorso, come se pure lui fosse una parte dell’installazione. Le immagini diffuse corroborano l’idea di figure simboliche, quasi ieratiche, fotografate in piedi, diritte e immobili come dentro un quadro di Magritte.
I primi commenti alla vista delle divise sono andati da «Sembra di essere in un manicomio o in un carcere«a «Terribili. Orribili». In effetti, quelle giacce a sacco non deprimono il corpo solo se sei slanciato e magrissimo perché annullano curve, smussano spigoli, azzerano differenze sessuali, annientano eventuali sensualità, fanno sembrare le persone dei manichini un po’ goffi. Ne esci rafforzata o rafforzato solo se sei molto androgina o molto fuori norma, esteticamente parlando. Il fine è esaltare una funzione, quella del custode o del lavoratore, appunto, non chi ci sta dentro e questo spiega anche la scelta di quel colore così visibile e identificabile.
Il custode, dunque, non esiste più come controllore che se ne sta occhiuto e appartato in un angolo a verificare che nessun visitatore provochi danni, ma esibisce ruolo e presenza, dichiara Io ci sono e conto.

DETTO CIO’, la divisa da lavoro, perché per quelle militari la questione è diversa, si porta dietro una storia non banale che da una parte identifica una classe di appartenenza, un mestiere, una posizione sociale, dall’altra uniforma le individualità. Essere vestiti tutti uguali con tuta, grembiule, completo, rafforza il far parte di un gruppo, di una collettività, ma nello stesso tempo mette in secondo piano il soggetto vestente. L’approccio a uno di questi due atteggiamenti è andato di pari passo con il senso del bene comune, con le lotte sociali, con la forza o la debolezza delle azioni politiche dei lavoratori. Basti pensare alle tute degli operai Fiat (oggi FCA) che quando erano una forza di lotta politica erano blu e ora che sono schiacciati dalle scelte aziendali sono vestiti di bianco, simbolico di un lavoro asettico e invisibile, che non sporca.
Quando vivevo a Ginevra non era inusuale vedere per strada dei signori che portavano con orgoglio la loro divisa da charpentier il cui capo emblematico sono dei pantaloni chiamati largeot, neri, di tessuto robusto, svasati, chiusi davanti da due cerniere e accompagnati da un gilet doppio petto, camicia bianca e cappello nero a falda larga. Non so se i custodi del Rivoli indosserebbero con la stessa baldanza, e fuori dal museo, la salviosa divisa disegnata da Gucci. Il senso di appartenenza non si costruisce a tavolino e senza tener conto di chi fa quel lavoro. E’ per questo che certe operazioni restano quello che sono, la manovra promozionale di un marchio.
P.S Dato il ricco calendario estivo di Festival, Eventi e appuntamenti sportivi, Habemus Corpus lascia il suo spazio ad altri e tornerà in settembre. Buon tutto.

mariangela.mianiti@gmail.com