Non c’è luogo più rimosso, meno raccontato, più occultato della fabbrica. Un mondo nel mondo fatto di regole autoritarie, leggi non scritte e di tempi, quelli del lavoro, e di spazio, del suono metallico e frastornante delle macchine. Un luogo concentrazionario dove sorvegliare e punire è la norma, così come stare chiusi dentro stabilimenti coercitivi che producono merci, profitti e alienazioni. Nonostante li abbiano dati per Mammut in via d’estinzione, sono ancora quasi due milioni gli operai metalmeccanici nel nostro paese, quel che resta della classe operaia, spesso altamente qualificata che costruisce automobili, treni, aerei, utensili, navi.

MOLTI LIBRI in questi ultimi anni hanno raccontato il lavoro, spesso quello nuovo, quello precario, ma pochissimi la fabbrica, considerata ingiustamente un luogo del passato, una archeologia novecentesca, proprio mentre dentro gli stabilimenti italiani si consumava un conflitto per scongiurare tagli, licenziamenti, delocalizzazioni, perdita di diritti.
Ma a rinominare questo luogo ancora così centrale nel mondo del lavoro contemporaneo, ci pensa un libro coraggioso scritto e disegnato con rigore formale e morale da Sonia Maria Luce Possentini, Premio Andersen 2017, che in una fonderia ci ha lavorato davvero nel suo paese natale, a Canossa, così come accade alla protagonista del suo racconto La prima cosa fu l’odore del ferro (Rrose Sélavy, pp. 40, euro 14). In questo luogo che divora nasce nella protagonista il conflitto tra corpo e ferro, che diventa «totalizzante», come scrive Maurizio Landini nella prefazione, imprigiona i lavoratori in comportamenti ripetitivi, il ferro e le sue polveri è un odore dominante, ma anche colore, patina, il grigio pastello appena rischiarato da scie gialle o del marrone nelle tetre illustrazioni che aderiscono perfettamente alle parole, sono gli «asettici inferni» dei versi di Vittorio Sereni e di Una visita in fabbrica; inizia a combattere contro il rumore, «al freddo che spacca le ossa d’inverno, e al caldo soffocante d’inverno», conosce intimamente come Simon Weil La condizione operaia, il libro che la filosofa scrive lavorando nelle officine Alstom e alla Renault, e che le fa dire «laggiù mi è stato impresso per sempre il marchio della schiavitù», quella della gente spinta dal bisogno di sopravvivere.

MA NON SMETTE di cercare anche la bellezza, «scintille di ferro come stelle dentro la polvere», si ostina a capire, diventa classe operaia, ride «per la bellezza della nostra umanità, diversa ma unita nella fatica», interiorizza la fonderia come luogo delle relazioni, dove si incontrano il mondo maschile e quello femminile, prende coscienza di una cosa importante, lì dentro sono tutti uguali, «ognuno stava al suo posto perché altri posti non c’erano». Finché «un giorno arrivò un cane», un cane misterioso e kafkiano che compie una metamorfosi, «pelo nero e due occhi curiosi», è lì il racconto cambia passo, da una notazione neorealistica con venature liriche, vira verso il fantastico, anche i disegni cambiano forma, la componente umana prende il sopravvento, così come la natura intorno, il paesaggio padano di nebbie e colline dove l’aria ha odore di neve.
L’incontro tra la protagonista e il cane è un incontro di sguardi che cambia la sua prospettiva, «trasformavo il guardare. Imparavo a vedere», dice di questa illuminazione. Sonia Maria Luce Possentini scrive un libro fatto di conflitti cromatici e tematici, che miracolosamente mette insieme politica e poesia, condizione di oppressi e liberazione, con un gesto di sovversione creativa capace solo agli artisti, quelli veri.