Ruspe, martelli pneumatici, plotoni di operai al lavoro giorno e notte compresi i giorni di Durga Pooja che per l’India e soprattutto in Bengala è come fosse Natale per noi, anzi di più. Da settimane la piana di Singur, 40 km da Kolkata, è di nuovo teatro della più frenetica attività.
E non si tratta di chissà quali nuovi accordi con la possente Tata Motors, finalizzati al ripristino di quella fabbrica che dieci anni fa era stata imposta con la forza, per la produzione della famosa Nano Car – salvo poi annullare tutto e trasferire il progetto altrove, in schiaffo alla più elementare nozione di responsabilità imprenditoriale. Esattamente il contrario: si tratta del radicale smantellamento, dalle fondamenta, di quel cubo di cemento e ferraglie rimaste lì per anni a marcire – in seguito a uno pronunciamento senza precedenti che la Corte Suprema dell’India ha emesso il 31 agosto scorso.
Sentenza che una volta per tutte definisce la requisizione di quelle terre inaccettabili in termini di public purpose (ovvero ‘pubblica utilità’), trattandosi di un’impresa con proiezioni di profitti per niente pubblici, bensì privati. Giustizia, at last!
LA TERRA AI CONTADINI
E stata fissata persino una data, entro la quale le terre dovranno tornare ai contadini: entro 12 settimane, metà novembre. Ma in anticipo sui tempi le restituzioni sono già iniziate da giorni, e in particolare oggi, mentre leggete queste righe, a Singur sarà festa grande, con il palco allestito in tempi record sui pali di bamboo, i poster virati di verde del Trinamool Party, gli altoparlanti, le ghirlande… è insomma sì «dopo tanto soffrire è arrivato il momento di celebrare una storica vittoria» mi conferma per telefono Sujato Bhadra, portavoce di APDR (Associazione Protezione Diritti Democratici) «una vittoria per quanti non si sono mai arresi ai ricatti, rifiutando di incassare le indennità anche nei momenti più duri. E una vittoria personale per la nostra Mamata Banerjee (leader del Trinamool Party ndr) che non ci ha mai mollato, e che alla fine ha mantenuto la promessa alla sua gente, quando venne votata…»
I PROBLEMI
«Non morirò in pace finché non vedrò restituite le terre di Singur» aveva detto infatti Mamata-didi (sorella) quando nel 2011 vinse alla grande le amministrative contro il Left Front, al governo del West Bengala da oltre 30 anni ma da tempo allo sbando, inspiegabilmente genuflesso ai guru del neo-liberismo al punto da scegliersi come consulenti quelli della McKinsey. Riconfermata a larghissima maggioranza anche alle ultime amministrative lo scorso maggio, la Banerjee sta vivendo in queste ore il suo Durga moment, magico e terrificante al tempo stesso: magico per l’indubbia affermazione personale, terrificante per la mole dei problemi che già si profilano all’orizzonte.
Il problema sul piano diciamo tecnico sarà riportare all’originaria funzione agricola quasi 400 ettari di terra rimasta incolta per 10 anni, e nel mezzo occupata da quegli impianti di cemento e acciaio, con fondamenta per giunta profondissime… impresa titanica. Ma ben più difficile sarà accontentare tutti.
WHOSE LAND IS THIS
«Sto seguendo da vicino la situazione e posso dire che i funzionari delle Banerjee ce la stanno mettendo tutta» mi dice il filmaker Ladly Mukhopadaya, che nel 2006 documentò la brutalità di quel land grabbing nel film Whose land is this, Di chi è questa terra. «Ahimè, molti piccoli proprietari sono più che altro interessati a monetizzare, e magari poi vendere. E gli unici autenticamente interessati al lavoro nei campi, sono i lavoranti a mezzadria, gli stagionali, rimasti senza nulla in tutti questi anni. E sono tantissimi, ma privi di titoli di proprietà, e almeno formalmente esclusi da queste restituzioni. Mamata Banerjee (che ovviamente ha molto a cuore il successo di questa operazione) ha predisposto sportelli di ascolto, consulenza porta-a-porta tra i villaggi, oltre 9.000 titoli di proprietà certa sono già stati definiti… ma non manca chi sarebbe tutto sommato propenso all’industria, e insomma il danno più grande per le terre di Singur è proprio in termini di identità: era una comunità coesa, che godeva di un certo benessere grazie all’eccezionale produttività dei loro campi, soppressa per il cosiddetto sviluppo industriale che però non è mai arrivato… come si risana una lacerazione così?»
LA MOBILITAZIONE
Nei mesi a cavallo tra il 2006 e il 2007, all’apice della crisi, Mukhopadaya seguì le varie fasi di quella lacerazione fin dai primi annunci, e poi come testimone delle requisizioni: il plotone dei militari all’alba, il terrore nei villaggi, un’occupazione di terre a colpi di bastone e lacrimogeni, uomini, donne, bambini cacciati senza esclusione di colpi. Perché Tata Motors volesse per forza quei terreni, invece di altri, meno fertili, meno popolati, ce lo spiegò l’attivista Medha Patkar, quando nello stesso periodo venne invitata a Roma dall’Associazione A Sud, per l’inaugurazione del CDCA (Centro Documentazione Conflitti Ambientali). «Chiesero di fare un giro in elicottero, e videro che quella era la zona più conveniente per loro: sulla Durgapur Express, la via più breve per le forniture del loro stesso acciaio, dagli impianti Tata Steel in Jharkhand».
LA SCELTA INDUSTRIALE
Adesso Tata Motors fa sapere che no, non è vero, l’idea di Singur non fu loro, bensì del governo, per giunta di sinistra, di Bhuddadeb Bhattacharjee, chissà perché determinato a sacrificare una fiorente economia agricola, al ritmo di 3 o anche 5 raccolti all’anno, sull’altare della transizione industriale.
Ma erano gli anni in cui si sentiva solo magnificare (anche chez nous) di quella cosa chiamata Shining India, o anche Impero di Cindia – persino il nostro neo-eletto Governo Prodi sembrò guardare solo in quella direzione, con particolare focus proprio in West Bengala.
E su quel progetto della Nano-car targato Tata Motors, in Joint Venture con la nostra Fiat da poco ‘presa in cura’ da Marchionne, la stampa main stream sia in India che in Italia, ricamò in tutti i modi possibili, contribuendo a una tale aspettativa in termini di vendite e apprezzamenti finanziari, da offuscare qualsiasi obiezione sul fronte della sostenibilità – nonostante i numerosi articoli su queste stesse colonne, le lettere, interventi, denunce dei sindacati CGIL e CISL, le circostanziate interrogazioni parlamentari (i testi integrali sul blog News Singur).
VIA DA SINGUR
Il progetto alla fine si auto-espulse da solo, quando nel settembre del 2008, aggiungendo la beffa al danno, Tata Motors decise che non era cosa: l’assedio, intorno alle mura di quella fabbrica ormai pronta per entrare in produzione, era diventato talmente pressante, con picchetti su 21 postazioni, lo sciopero della fame a oltranza di Mamata Banerjee, il via vai della stampa eccetera, che all’offerta di un più tranquillo insediamento in Gujarath, Ratan Tata non seppe dire di no. Mossa che disorientò tutti quanti: il movimento dei contadini, senza più nulla da negoziare, condannati a guardare i loro ex-campi al di là del muro senza neppure più il ‘sogno’ della fabbrica; e soprattutto il governo del Left Front, senza più nulla da difendere, a parte lo scorno.
«Io però ho sempre considerato quel momento, in cui la possente Tata Motors fu costretta, a caro prezzo, a trasferire la sua pessima impresa altrove, una vittoria del movimento di Singur, il preludio di questa recente e significativa sentenza» commenta Medha Patkar.
I COSTI SOCIALI
«Significativa soprattutto quando chiaramente dice che per quanto necessarie possano essere per qualsiasi governo le requisizioni territoriali, con motivazioni di sviluppo, ovvero strade, dighe, infrastrutture, opere pubbliche, e anche insediamenti industriali, il prezzo non può ricadere sugli strati più vulnerabili della popolazione. E questo ahimè è quanto succede da troppo tempo in India, pensiamo al costo sociale della mega-diga Sardar Sarvar sul fiume Narmada, nonostante una protesta che dura da oltre 30 anni.
Ma pensiamo a ciò che continuerà a succedere, se è vero che soprattutto nelle zone tribali, ricche di risorse minerarie, si fa a gara per facilitare gli investimenti delle multinazionali, con ogni genere di ribassi e incentivi. Purtroppo questa sentenza non avrà valore vincolante per altri analoghi casi di land grabbing, perché in India ogni Tribunale si pronuncia in totale autonomia. Ma è indubbiamente una vittoria storica per tutti noi che ci battiamo per i diritti della terra, delle foreste, delle coste – e di quanti da essi derivano la loro elementare sussistenza».