Le canzoni sono fatte di note e di sentimenti. Riescono a dare forma, colore e spesso anche un linguaggio alle nostre passioni. E capita anche che i versi di qualche brano abbiano la capacità non solo di entrare in un lessico condiviso, ma di imporsi come veri e propri slogan e luoghi comuni, superando anche le barriere linguistiche. Un ritornello o uno scampolo di una canzone possono così trascendere la canzone stessa e trasformarsi nel tempo in qualcosa di più universale: in una frase che incarna una moda, in un motto che riassume un periodo storico, in un’espressione idiomatica o in un vessillo di una lotta politica e sociale.

«WE SHALL OVERCOME»
La madre di tutte le canzoni-slogan. We Shall Overcome è un canto di protesta così famoso che non viene neppure associata più a un artista specifico. Nacque ben prima dell’era pop come canto religioso afroamericano agli inizi del Novecento e dalla tradizione gospel passò al movimento dei diritti civili, per poi diventare un punto cardinale del movimento folk degli anni Sessanta. Fu citata da Martin Luther King nel suo ultimo sermone. Da allora ha girato il mondo ed è stata cantata a marce per i diritti in ogni angolo del pianeta: dai paesi della Cortina di ferro al Sudafrica dell’apartheid, dall’India delle caste ai paesi arabi nel corso della loro effimera primavera. Roger Waters l’ha cantata per ricordare i diritti della popolazione della striscia di Gaza, Bruce Springsteen commemorando i giovani uccisi nella strage di Utoya, Joan Baez invece ne fece un inno contro la guerra. La trasformazione da canto di chiesa a inno di protesta si deve in gran parte al cantante folk e attivista comunista Pete Seeger che riprese la canzone alla fine degli anni Quaranta per trasformarla in un inno dei lavoratori. Ne cambiò profondamente anche il senso. We Shall Overcome, che potremmo tradurre sia «noi ce la faremo» che «noi avremo la meglio», nella tradizione dei canti religiosi black era un invito alla pazienza e alla fede nella giustizia divina che permetterà di superare e di vincere i torti di questo mondo. L’«overcome» di Seeger aveva un’accezione assai più terrena e combattiva. Era un canto e uno slogan di lotta e di resistenza. Seeger decise anche di mettere il copyright al brano sia per proteggerlo da versioni irrispettose ma anche per riuscire a raccogliere soldi per il movimento dei diritti civili. Una sentenza di un tribunale dello scorso settembre ha deciso che i diritti sulla canzone oggi non valgono più e We Shall Overcome, definita dalla Libreria del Congresso Usa «la più potente canzone del XX secolo», è patrimonio di tutti.

«THIS LAND IS YOUR LAND»
«Questa terra è la tua terra, questa terra è la mia terra. Dalla California a Staten Island a New York, dalla foresta di Redwood alle acque della corrente del Golfo. Questa terrà è stata fatta per te e per me». Le parole della canzone di Woody Guthrie scritte nel 1940 e divenute canzone quattro anni dopo, sono diventate così celebri e così radicate nella cultura popolare americana da essere diventate un inno nazionale non ufficiale. Sono anche i versi poetici più emblematici dello spirito americano, al pari forse delle rime di Emma Lazarus incise sulla Statua della Libertà («Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite…» ). Ma Guthrie nel comporre il brano aveva pensato anche a un inno che celebrava la condivisione e attaccava la proprietà privata (vedi Alias del 18 novembre 2017), un aspetto che col passare degli anni è stato messo in secondo piano. Della canzone si è conservato lo spirito evocativo che allude all’accoglienza e alla realizzazione del sogno americano. Le parole «this land is your land» sono perciò diventate patrimonio di tutti e hanno assunto via via negli anni la connotazione di preghiera nazionale, di vessillo di battaglie politiche e rivendicazioni sociali, di urlo di protesta. Ma sono anche diventate una efficacissima frase pubblicitaria e un inflazionato slogan da cartolina per miriadi di campagne promozionali turistiche di quasi tutti gli angoli americani, dalla California a New York, dalle foreste del Nord al Golfo del Messico.

«EVERYBODY MUST GET STONED»
Con un suono da banda di strada, il giovane Bob Dylan per il suo album Blonde on Blonde, datato 1965, confezionava Rainy Day Women ♯12 & 35, una canzone dal suono ubriaco che giocava con le parole e soprattutto con l’espressione «get stoned» che significa «essere preso a sassate», ma che in gergo alludeva allo stato di alterazione della droga o dell’alcol. «Ti tirano le pietre quando cerchi di essere buono – cantava Dylan -. Ti tirano le pietre quando tenti di tornartene a casa. Ti tirano le pietre quando te ne stai per i fatti tuoi». Il culmine del pezzo era però il verso conclusivo della strofa cioè «Everybody must get stoned» che contemporaneamente era sia una dichiarazione di resa («Tutti devono farsi lapidare») che un invito alla ribellione («Tutti devono farsi una canna»). L’espressione in vernacolo era già entrata nel gergo musicale grazie a una hit r’n’b dei The Coasters Let’s Go Get Stoned, poi riproposta da Ray Charles. Che Dylan sapesse quello che voleva dire era indubbio visto che, secondo alcuni resoconti, impose ai suoi musicisti di fumare marijuana prima di incidere il pezzo. «Everybody must get stoned» è comunque diventato un ritornello antiproibizionista condiviso da fan dyilaniani e non, un vero vessillo degli «stoner» di tutto il mondo. In Italia tutti conoscono la canzone Pietre del cantante francese Antoine, successo sanremese del 1967 che di fatto era una cover non dichiarata della canzone di Dylan. Ma per il palco del Festival della canzone italiana era scomparso ogni riferimento alla droga. Erano rimasti solo i sassi.

«NOI NON CI SAREMO»
Portata al successo dai Nomadi nel 1966, Per quando noi non ci saremo è un inno pacifista che descrive l’incubo nucleare che angosciava gli anni più caldi della Guerra fredda. «Vedremo soltanto una sfera di fuoco più grande del sole, più vasta del mondo» è l’incipit del brano composto da Francesco Guccini e portato al successo dai Nomadi. La descrizione di un mondo post-apocalittico divenne inno politico e manifesto a favore del disarmo. Tuttavia la frase «noi non ci saremo» si trasformò anche in un invito al non conformismo e all’affermazione del proprio orgoglio tanto da diventare idiomatica anche al di là della tematica strettamente anti-bellica. Il verso si è prestato inoltre spesso a essere anche una dichiarazione di dignità e indipendenza della musica italiana d’autore nei confronti delle canzonette. È bastato infatti aggiungere una lettera per trasformare il ritornello in «noi non ci Sanremo».

«BORN TO BE WILD»
Nel 1968 la band californiana degli Steppenwolf decise di prendere una ballata scritta dal canadese Mars Bonfire e trasformarla in un poderoso inno rock. L’anno dopo il brano Born to Be Wild finì nella colonna sonora del film Easy Rider e entrò nella leggenda. Eppure era stato solo una seconda scelta visto che la star del film, Peter Fonda, avrebbe preferito di gran lunga la musica di Crosby, Stills & Nash. Ma sia il film che la canzone segnarono un’epoca. Da allora Born to Be Wild è un’immagine di libertà indelebile che accompagna gli aneliti di ribellione, come le insegne dei venditori di motociclette di tutto il pianeta.

«GIVE PEACE A CHANCE»
L’intera carriera dei Beatles è diventata un linguaggio comune globale, tanto da abbattere i confini e le barriere linguistiche. Da All You Need Is Love a Come Together a Let it Be, non c’è hit dei Fab Four che non sia parte del vernacolo universale. Ma lo slogan forse più duraturo appartiene in realtà a John Lennon con una sua canzone solista. Give Peace a Chance fu incisa nel giugno del 1969. John era ancora formalmente parte dei Beatles, ma i quattro di Liverpool stavano già intraprendendo strade diverse. Il brano nacque durante lo storico bed-in, una manifestazione pubblica di pace e amore che Lennon e Yoko Ono consumarono nella stanza 1742 del Queen Elizabeth Hotel di Montreal. Rintanatisi a letto insieme in una ideale luna di miele pubblica, i due incontravano giornalisti e amici e diffondevano messaggi di comunione e armonia universale. Durante un’intervista a John fu chiesto quale fosse il messaggio di questa iniziativa, il cantante ribatté: «Tutto quello che diciamo è di dare una possibilità alla pace». La risposta, del tutto spontanea, piacque e sedusse soprattutto lo stesso Lennon che decise di improvvisare su quello slogan una canzone che venne incisa poco dopo in quella stessa stanza con un’apparecchiatura di fortuna presa in prestito da uno studio di registrazione locale. Give Peace a Chance è diventato il canto di infinite manifestazioni pacifiste in giro per il mondo, restando il simbolo stesso dell’impegno di John Lennon e uno dei suoi lasciti più duraturi e preziosi.

«HEY! HO! LET’S GO!»
Non lo hanno fatto né i Beatles, né gli Stones. Sì perché i Ramones sono riusciti a consegnare alla storia del rock i primi versi della prima canzone in assoluto che pubblicarono. Il loro primo vagito è diventato un marchio di fabbrica, un’icona di un genere, una frase che riassume in sé uno stile, un’epoca, un atteggiamento nonché un coro da stadio. Il loro punk era tanto elementare quanto democratico, pronto per appartenere a tutti ed essere suonato da chiunque. «Il miracolo di Joey Ramone» lo chiameranno gli U2 decenni dopo. Blitzkrieg Bop, il loro esordio a 45 giri, uscì nel febbraio 1976, 2 minuti e 14 secondi di pura adrenalina, tre accordi e uno strafottente 4/4 che diede la scintilla alla scena punk di New York. «Hey! Ho! Let’s Go!» era il semaforo verde, l’avvio di qualcosa di nuovo e di eccitante. Era anche una citazione di un eroe dimenticato del rock, Ritchie Valens, che con Come On, Let’s Go vent’anni prima aveva provato a incendiare il rock.

«LO SCOPRIREMO SOLO VIVENDO»
«Una nazione è fatta dai ritornelli che sceglie di canticchiare all’infinito», ha riconosciuto lo scrittore Tiziano Scarpa. Per l’Italia questo è vero soprattutto riguardo al connubio Lucio Battisti-Mogol che nel pop nostrano, più di chiunque altro, ha saputo consegnare alla memoria collettiva versi ed espressioni che oggi fanno parte della nostra lingua corrente. Battisti con le sue canzoni non aveva ambizioni messianiche. «Se trasmetto dei messaggi non lo faccio apposta. Non credo di essere né un santone né un vate, che somiglia molto a un water» disse nell’ultima intervista che concesse, datata 1979. Prendeva così in giro sia il suo interlocutore sia i cantautori suoi contemporanei con cui non si era mai amalgamato. Sono numerosissimi i versi tratti dalle canzoni di Battisti che fanno parte del nostro frasario quotidiano, tuttavia nella lingua italiana difficilmente si incontra un motto tratto dal repertorio del grande Lucio più radicato dell’espressione, dubbiosa e fatalista, «lo scopriremo solo vivendo» coniata da Mogol per il brano Con il nastro rosa del 1980.

«FRANKIE SAY RELAX»
Censurata, cancellata dalle programmazioni radio e poi divenuta una hit globale, Relax della band inglese Frankie Goes to Hollywood è una delle canzoni più riconosciute degli anni Ottanta. Due milioni di copie solo in Gran Bretagna, dove a tutt’oggi è uno dei singoli più venduti di sempre. Il testo furbo, allusivo e scabroso era quanto di meglio il pop di quegli anni potesse desiderare. Relax divenne non solo un inno ma anche uno slogan e un tormentone. La canzone venne condensata nella frase «Frankie say relax» che si trasformò (con tanto di errore grammaticale sulla declinazione del verbo) in un brand di moda e venne stampata su una t-shirt diventata l’icona di un’epoca. Tanto da essere immortalata anche in un esilarante episodio della serie americana Friends, girata quindici anni dopo.

«GEIL»
Due soldati dell’esercito di sua maestà britannica di stanza nella Germania dell’Ovest negli anni Ottanta, Bruce Hammond Earlam e Douglas Wilgrove, scoprirono le asperità della lingua teutonica che a stento stavano imparando. Finita la leva, decisero di incidere per gioco un brano che prendeva in giro una parola che avevano scoperto e di cui non riuscivano a capacitarsi di come fosse onnicomprensiva. La parola era «geil» che secondo i dizionari può significare libidinoso, lascivo oppure fertile, ma che nel linguaggio di tutti i giorni veniva utilizzato dai giovani tedeschi da questa parte del muro come l’inglese «cool» o l’italiano «fico». La canzone che i due ex-soldati, ribattezzatisi Bruce & Bongo, avevano composto era un capolavoro di cattivo gusto, costruito su un campionamento di un’altra hit germanofona come l’indimenticabile Rock Me Amadeus di Falco e scandita in un inglese dall’accento tedesco che decantava versi al limite del dadaismo come «Boris Becker is geil. Everybody’s geil». La canzone fu una clamorosa hit in tutta l’Europa continentale, soprattutto in Germania, ma riuscì a scalare le classifiche anche in Italia. Inutile dire che di Bruce & Bongo si sono perse definitivamente le tracce, ma «geil» è ormai una parola che è stabilmente entrata nella lingua di Goethe dove viene utilizzata per indicare qualsiasi cosa si apprezzi. Sulle tracce del duo qualche tempo fa la più grande catena di supermarket tedesca ha lanciato una fortunatissima campagna promozionale web accompagnata dalla canzone-slogan Supergeil, «superfico».

«MEAT IS MURDER»
Il secondo album degli Smiths rappresentò per loro la consacrazione artistica. Il disco prendeva il titolo dal brano conclusivo della raccolta, il primo vero inno vegetariano a farsi notare nella storia del pop: Meat Is Murder, la carne è omicidio. «I guaiti di una giovenca potrebbero essere grida umane – declamava il brano eccedendo in melodramma e immagini intense -. L’urlo della lama assassina si fa più vicino. Questa meravigliosa creatura deve morire». Per il leader della band Morrissey il vegetarianesimo non è mai stato una moda o un comportamento di facciata, ai tempi proibì ai suoi colleghi della band di farsi fotografare mentre mangiavano carne. Oggi, diventato un artista solista, impone che ai suoi concerti si consumino e si vendano solo panini vegetariani. Se negli anni Ottanta il cantante veniva visto come un bizzarro paladino di una causa un po’ donchisciottesca, oggi «meat is murder» è un motto che è diventato bandiera del movimento vegetariano e vegano ed è penetrato nella cultura rock. Tra le rockstar che hanno seguito l’esempio di Morrissey ci sono artisti di diverse generazioni come Paul McCartney e Moby; sorprende pensare che oggi uno dei generi che sostiene con maggior vigore la causa vegetariana è la musica punk.

«FIGHT THE POWER»
Alla fine degli anni Ottanta a New York i Public Enemy misero in rime e beat la nascita si una nuova consapevolezza dei giovani neri dei ghetti d’America che si esprimeva con la rabbia di testi intensi e provocatori e con ritmiche incalzanti. Era una svolta per il rap che diventava politico e minaccioso per la cultura conservatrice. Le canzoni di Chuck D e della sua crew erano slogan militanti fatti e finiti che raggiunsero la maggiore intensità con l’inno Fight the Power, «combatti il potere», pubblicato nel 1989 come brano da inserire nella colonna sonora di Fa’ la cosa giusta di Spike Lee. L’hip hop passava da cultura di strada a ruggito di piazza, pronto a dare sfogo alla frustrazione di una nuova generazione. In quegli stessi mesi dall’altra parte degli Stati Uniti, a Los Angeles, gli N.W.A. cantavano Fuck tha Police («Fanculo la polizia») che diventerà anni dopo, metabolizzata la crudezza del testo e svanite le censure, l’invettiva dei giovani neri contro la violenza poliziesca e uno dei canti di protesta del movimento «Black lives matter».