A Caivano, in provincia di Napoli, c’era una fabbrica, la Redaelli Tecnasud, che produceva cavi, funi e trefoli, cioè barre di piccolo diametro, ad alto tenore di carbonio per prefabbricati, viadotti, ponti, dighe, gallerie, infrastrutture ferroviarie e industriali. Il sito impiegava circa cento lavoratori, il loro prodotto veniva venduto al 50% fuori dall’Italia (Europa, Nord Africa, Nord e Sud America).

Nel luglio 2008 la Redaelli di Caivano viene assorbita dalla Italcables, che ha altre due fabbriche: allo stabilimento storico di Sarezzo, in provincia di Brescia, sul mercato dagli anni ’70, nel 2001 si è aggiunto quello di Cepagatti, nel pescarese. Nel 2005 Italcables era stata acquistata da Companhia Previdente, una delle più vecchie società industriali del Portogallo. Nel 2009 la crisi inizia a tagliare le gambe al gruppo lusitano, il sito di Sarezzo viene chiuso per primo, nel bresciano rimane solo la sede amministrativa, seguito poi da Cepagatti. In funzione resta solo Caivano.

Il problema sono le banche: la stretta creditizia in piena crisi economica, portoghese e poi europea, toglie l’aria all’impresa, i fornitori a loro volta fanno fatica ad aspettare tempi di pagamento dilatati. Il mercato c’è ma manca la liquidità per andare avanti.

A inizio 2013 si arriva al blocco delle forniture. La Companhia fa un ultimo tentativo per salvare la produzione: il piano prevede di congelare il debito, da ristrutturare, e pagare cash le materie prime, i fornitori accettano ma le banche rifiutano di accompagnare il processo così il piano salta. A gennaio 2013 Italcables chiude i battenti per finire in concordato preventivo, fino a giugno la proprietà prova a tornare sul mercato, i creditori accettano il nuovo piano ma le banche ancora una volta dicono di no, non resta che il fallimento. Il sito di Caivano precipita così in concordato per liquidazione.

«Gli operai sono saliti sul capannone, come tanti altri lavoratori in Italia, per rivendicare il diritto a conservare il loro posto di lavoro. Non è successo nulla solo perché siamo rimasti lucidi»: a raccontare quei giorni è Matteo Potenzieri, era l’ingegnere addetto alla produzione, oggi si occupa ancora dei cavi e della barre realizzate a Caivano ma in qualità di presidente della Cooperativa Wbo Italcables, dove Wbo sta per Workers buy out.

«Il commissario liquidatore – prosegue – avrebbe dovuto svendere lo stabilimento un pezzo per volta. Sapevamo che, con il primo macchinario che usciva dal capannone, il nostro futuro alla Italcables sarebbe sparito. Mi sono messo a cercare su Internet, ho scoperto altri lavoratori del centro nord che avevano riaperto i loro siti produttivi costituendosi in cooperativa e subentrando nella gestione, ci siamo riuniti e ne abbiamo parlato. Ogni documento che stilavamo veniva diffuso e condiviso. Due anni di lavoro durissimo ma ci siamo riusciti».

Nel consiglio di amministrazione siedono in sette: tre sono dirigenti e quattro sono operai. Ad accettare la sfida sono stati in 51, l’età varia dai 30 ai 50: il piano prevede per tre anni un contratto di fitto di ramo d’azienda con promessa d’acquisto, hanno investito 25mila euro ciascuno, utilizzando l’anticipo in un’unica soluzione della mobilità, ma qualcuno ha impiegato anche il Tfr.

Se il progetto funziona, in un paio d’anni potrebbero essere assunte un’altra ventina di unità, riportando il numero dei lavoratori a quello del 2009. Si tratta di un investimento complessivo da 3milioni800mila euro: dei 95mila metri quadrati del sito produttivo ne rileveranno solo 75mila, di cui 25mila coperti. Ad aiutarli nel percorso Legacoop che, con il fondo di promozione Coopfond, investe 300mila euro, Banca Etica e Cfi – Cooperazione Finanza Impresa, cioè la società partecipata dal ministero dello Sviluppo economico nata con la Legge Marcora e specializzata nel finanziamento dei progetti di workers buy out. La contrattazione al ministero è stata decisiva: «A marzo ci hanno dato ulteriori sei mesi di tempo per definire il piano – spiega Potenzieri -. Abbiamo trovato un commercialista che ha creduto in noi e infatti è entrato nella cooperativa. Lui ha realizzato il business plan. Con noi lavorerà anche uno degli amministrativi che era nella sede di Brescia, un emigrante al contrario».

A ottobre hanno cominciato a rimettere in sesto la fabbrica: risistemare i capannoni, avviare la manutenzione dei macchinari (per adesso è utilizzabile il 50% delle attrezzature), le prime prove, richiamare i fornitori. Non è facile dopo una chiusura lunga due anni ma il primo carico è già partito, direzione Usa. «Il nostro direttore commerciale, un ingegnere globetrotter, è stato il primo a perdere il posto – conclude – ma è rimasto nel settore, quando gli abbiamo raccontato che avremmo avviato la cooperativa è tornato. Anche i clienti sono stati felici di continuare a fornirsi da noi. Sentiamo fortissima la responsabilità di quello che stiamo facendo. I rischi ci sono, il problema della liquidità e delle banche ad esempio non è del tutto risolto, qui al sud è particolarmente difficile. Ma speriamo che possa servire anche ad altri».

Si tratta di creare anche per altre realtà le condizioni per utilizzare misure come il diritto di prelazione per l’affitto o per l’acquisto in favore di società cooperative costituite da personale dipendente dall’impresa sottoposta alla procedura di concordato preventivo. «Insomma soluzioni non se ne vedevano, ci abbiamo pensato noi a salvarci».