Entro cinque-sette anni, il Qatar aumenterà del 30% la produzione di gas liquido. A sostenerla nel titanico sforzo saranno i tre giganti energetici mondiali, l’americana Exxon, l’anglo-olandese Shell e la francese Total.

È quanto riportava nei giorni scorsi la Reuters: le tre multinazionali hanno dichiarato – in segreto, per ora – sostegno al piano di espansione annunciato martedì scorso dalla petromonarchia, in termini di ampliamento delle infrastrutture esistenti e della costruzione di nuovi terminal.

Un progetto che giunge in piena crisi del Golfo, con il Qatar isolato dal resto del fronte sunnita (Arabia saudita, Bahrain, Emirati arabi e Egitto), il fallimento della mediazione del Kuwait e la prospettiva di nuove sanzioni a stretto giro.

Doha ostenta sicurezza a fronte delle manovre saudite di annientamento politico e rilancia: l’attuale produzione annuale di 77 milioni di tonnellate di gas liquido (che ne fanno il primo fornitore mondiale) sarà portata a 100 milioni entro il 2024, ha detto il presidente della Qatar Petroleum, Saad Sherida al Kaabi.

C’è già chi ci si butta a pesce: nelle scorse settimane, a crisi già esplosa, gli amministratori delegati di Exxon, Shell e Total hanno fatto la spola alla corte dell’emiro Tamim bin Hamad al Thani. Il primo è stato Ben van Beurden, ad di Shell, il 14 giugno: pochi giorni dopo Doha annunciava un nuovo accordo con la multinazionale anglo-olandese per la fornitura di 1,1 milioni di tonnellate di gas l’anno dal 2019.

Il 26 giugno è stato il turno di Darren Woord, ad di Exxon, primo investitore nell’emirato (il 7% del portfolio della compagnia è rappresentato dal gas qatariota). E infine è arrivato Patrick Pouyanne, ad di Total, con la promessa di tornare nelle prossime settimane per discutere ancora dello sviluppo del giacimento di al-Shaheen.

Nessun commento ufficiale, solo una voce anonima che alla Reuters ha ben spiegato gli interessi delle società: «C’è solo una politica qui – ha detto il funzionario di una delle compagnie coinvolte – Si devono fare scelte puramente economiche, essere qatariota in Qatar e emiratino negli Emirati».

Il trionfo della realpolitik. Non c’è da stupirsi dunque della virata statunitense in materia. C’è chi si chiedeva perché, dopo l’endorsement via Twitter del presidente Trump a Riyadh per l’isolamento di Doha (un sostegno dal retrogusto di rivendicazione), Washington avesse optato per la mediazione dietro le quinte.

In prima linea sta il segretario di Stato Tillerson, non a caso ex presidente della Exxon e strenuo difensore della lobby petrolifera, che sta incontrando diversi rappresentanti dell’emirato e quelli del fronte avversario.

Così, mentre Trump costringe ogni vertice internazionale a chiudere senza concedere nulla alla questione climatica, Tillerson è impegnato in una crisi, quella del Golfo, le cui radici sono tanto politico-egemoniche quanto economiche. E lì economia è sinonimo di risorse energetiche.