Poco più che ventenne, nel 1931, Enzo Carli, studioso di storia dell’arte tra i maggiori del Novecento, pubblica presso Pacini, a Pisa, Fortune, la sua prima raccolta di poesie.

Nel 1935 licenziò per Le Monnier un secondo volumetto Cronache e commiati. Ancora, nel 1940, suoi componimenti apparvero su “Maestrale”. E, cinquant’anni dopo, tra1992 e 1998, diede alle stampe Epigrammi di un ottuagenario, Serventesi elegiaci per la moglie morta e Cento e una cavatine bibliche. Quando Carli venne a mancare nel settembre del 1999, i figli trovarono tra le sue carte certi piccoli componimenti poetici.

Essi, nel 2002, furono affidati alla Blu di Prussia editrice di Piacenza che ne curò una preziosa pubblicazione riproducendo gli originali dattiloscritti in copia anastatica. “La tarda età, avvertono in una nota i figli, ed il molto aver veduto, ammirato e studiato dipinti e sculture, gli avevano definitivamente consumato la vista, fino a condurlo a vedere poche e confuse luci. Consapevole che il suo ostinato battere i tasti della vecchia macchina da scrivere senza poterli distinguere con precisione, avrebbe prodotto scritti approssimativi, pur con ironia parlò di questi suoi versi definendoli ‘ciecoscritti’”.

È il titolo apposto dall’editore sull’astuccio che accoglie le poetiche pagine volanti lasciate da Carli sotto l’intestazione LA EILA I ? CIMA. Sonatine di parole ciecoscritte. Ne trascrivo qui una, intitolata LO SPEXXHUL: “LO SPECCHIO incui mi guardo ora riflette/O1 non amabile vmlto di un vecchio//MI APPARECCHIO A dat l’uktimo viaggio/E si eifiuti è ormao dolmo il mio secchio.//PARECCHO deu miei sensi ho già perduto/Ma quasi insenne sol resta l’orecchio/Così ascolyandp musiva io invecchio”. Costretto da una ferita ad un periodo di momentanea cecità Gabriele D’Annunzio scrive il Notturno grazie a un ingegnoso telaietto: consente di vergare linee in ordinata successione e garantire un risultato alla sua scrittura. All’opposto Robert Desnos, Corps e biens, o dello scrivere come automatismo, nell’intenzione d’annullare ogni controllo. Al buio. E poi Alberto Savinio che, quando li giudicò felici, non corresse gli errori che scaturivano, inaspettato dono, dalle imperscrutabili, meccaniche virtù dell’arte dattilografica. Enzo Carli, negli estremi mesi della sua vita, non libera la mano dall’obbligo d’un gesto controllato che prema sul tasto giusto la rispettiva lettera.

Non si abbandona alla casualità, soglia, talora, di delibazioni metafisiche. Non cede al gratuito, linfa dell’atto surreale. Con determinazione, con diligenza batte fedele la nota tastiera, le consegna scelte parole tessute nel limpido filo dei ragionamenti (la sua scrittura senza rabeschi, quella chiara linearità). Anche Carli, come Jean Paul Sartre vecchio che se ne appenava, scrivere poteva, ma non rileggersi.

E rileggere vale correggere, conferire allo scritto uno stile. Così, solo quando gli vengono letti, quei versi dattiloscritti rivelano una sorprendente imprecisione. “Di fronte ai nostri sforzi fonetici ed interpretativi restava divertito, ricordano i figli, con lo sguardo perduto nel vuoto, impegnandosi non tanto a trovare un ragionevole significato delle parole, ma piuttosto meravigliandosi dei suoni inconsueti”.

Tra la mano dello scrivente e le leve dei tasti, impalpabile, aereo e misterioso si anima un inatteso Wirr-warr, un caparbio qui pro quo. Trionfo del fischio per fiasco, della lanterna in lucciola, del dove vai sono cipolle.

Enzo ne ride d’un riso pieno, quello che, incontenibile, sgorga puro in certi divertimenti di burle e nascondini e agguati o lallazioni e prendimi prendimi e bau sèttete, quando la sapienza infantile dipana insieme assurdo e coerente, insensato ed efficace. È il riso di Democrito. Quell’essersi dedicato Carli ai coltivati retaggi dei maggiori – pittori, scultori, musicisti e poeti – ed aver affidato alla sorvegliata scrittura il compito di dare un nitore di costrutto al suo giudizio, non lo avevano però illuso mai né, mai, cullato in certezze di verità definitive o imperiture.

Così non emenda il dettato delle estreme e felici sue carte poetiche. Puer senex, il suo riso sa che “anche le Muse muoiono”, come scrisse Enea Silvio Piccolomini.