Adorno definisce «astanza» una presenza artistica che si impone per la sua stessa forza e necessità espressiva, perciò nuda di giustificazioni e di alibi. Essa non ha alcun bisogno di aggettivi ma vive dei nomi o dei verbi e cioè della endiadi, ci spiegano i linguisti, che fonda la sintassi o, in termini più semplici, denota un pensiero in atto.
Estranea alla aggettivazione ornante, del tutto priva di nomi propri, la poesia di Francesco Scarabicchi, astante nei suoi puri gesti verticali, nomina i fatti e le presenze del mondo nella loro essenzialità o meglio ancora nella loro transitorietà senza ritorno, come li cogliesse ogni volta in una eternità di istante che vale un ora-per-allora, e viceversa. Non si tratta nemmeno di una poesia elegiaca e che dunque traghetti i propri referenti dal passato al presente ma, al contrario, si tratta di una poesia in cui il presente serba il segno del passato, le sue ferite e le sue perdite più rovinose, mentre accoglie il momento ulteriore, direbbe il vecchio Orazio, quam minimum credula postero e pertanto mantenendosi al riparo dalla sua inconsistenza meramente virtuale o proiettiva.
Di Scarabicchi, della sua lunga, silente e si direbbe implacabile ricerca poetica, torna in libreria Il prato bianco (Einaudi «Collezione di poesia», pp. 139, € 12,00) che è anche il libro in ogni senso baricentrico della sua produzione essendo uscito una prima volta, esattamente vent’anni fa, nelle squisite edizioni l’Obliquo del pittore bresciano Giorgio Bertelli. A quella altezza, Scarabicchi, nato in Ancona nel 1951 e formatosi fra gli anni settanta e ottanta sotto il magistero severissimo del grande Franco Scataglini (e, per traslato, sugli esempi del versante antinovecentista come antiavanguardista della tradizione secolare, forte dei nomi di Saba, Penna, Caproni), già aveva pubblicato in semiclandestinità due raccolte, La porta murata nel 1982 e Il viale d’inverno del 1989, che infatti lo rivelavano un poeta di netta fisionomia e, insieme, una voce in dialogo con le più eminenti o emergenti della propria generazione: perché quel senso incombente di futuro ostruito e impossibile, con l’immagine della porta murata, quell’aria di improvvisa costernazione e di prossima e generale ibernazione, egli li condivideva con quanti percepivano la durezza dell’inverno a venire (una parola-chiave in tanti titoli di allora, quasi un tabù invasivo) ed erano in effetti destinati a comparire negli anni quali suoi coetanei ed elettivi compagni di via in una trama di aperture dialogiche e di segrete risonanze, da Ferruccio Benzoni, Fabio Pusterla e Stefano Simoncelli a Enrico Testa, Marco Ferri, Paolo Lanaro e Antonella Anedda.
Tipico di Scarabicchi, e solo suo, è appunto il segno scabro, inciso, la postura idealmente verticale del verso pure quando si scopre il più classico, un endecasillabo sempre franto ma sempre liberamente ricomposto. Ad apertura di pagina: «quel povero deserto / d’ore insonni / in cui tutto, per sempre, / è eterno e niente»; oppure, nella sezione che richiama silenziosamente il nuovo ordine imperiale e le guerre combattute bestemmiando la democrazia (il volume, va detto, comprende testi scritti fra il 1988 e il ’95, mentre la sezione in oggetto si intitola paradossalmente Bisbigli): «La morte dei soldati / le mute reliquie degli arresi / toccati dalla polvere dell’angelo».
Quest’ultima immagine parla da sé, non ha aloni né esibisce maquillage, eppure evoca una totalità percettiva, la fa presente senza il bisogno di renderla esplicita. È il dono della poesia di Scarabicchi quello di acquisire un dato universale nella designazione di un semplice particolare e non a caso, di recente, Massimo Recalcati ha avanzato l’analogia con la pittura di Giorgio Morandi. Perché nella poesia di Scarabicchi quanto potrebbe apparire a prima vista come una malinconica elaborazione e a tutte lettere come una drammatica ossessione (il ripetersi costante di trapassi, di trasalimenti, di silenziose perdite, il senso perenne di un tramontare delle cose e degli esseri umani) è in realtà una perpetua acquisizione della vita e dei segni che in essa si incidono o, meglio ancora, è una estrema ritenzione di ciò che della vita non può né deve essere perduto: una figura che mai più vedremo, un gesto còlto nella sua bellezza inconsapevole, una forma compiuta dell’esser-ci, un suono perfetto e slontanante come può essere quello dei passi di uno sconosciuto, senza volto, che a sera riguadagna la via di casa: «Chi, come te, cortese / mi sovviene / lascia l’orma leggera / e si allontana, / come fanno le nuvole, / tacendo».
La stessa immagine che viene eletta a titolo, il prato bianco, dà il senso di una delicata protezione delle cose e gli esseri presenti nel mondo (la neve, innanzitutto, o un pulviscolo che sa di tenero diaframma in controluce) ma nello stesso tempo allude all’atto, davvero primordiale, di chi deposita su un foglio la scansione del suo vivere medesimo, del suo sentire e intanto dire, come peraltro testimoniano appieno le raccolte successive al giro di boa che per Francesco Scarabicchi è stato Il prato bianco, vale a dire L’esperienza della neve (Donzelli 2003) e L’ora felice (ivi 2010), il dono finalmente prodigato di un poeta che sentiamo fra i maggiori e più fraterni di oggi.