La Commissione Europea lo ha bocciato. La Cgil con la segretaria Susanna Camusso ha iniziato a cannoneggiare il suo «Jobs Act», entità fantasmatica che prenderà corpo mercoledì 12 marzo in un’attesissima conferenza stampa dove ci si aspetta qualcosa in più di una newsletter.

Nel frattempo, Matteo Renzi continua a fare lo spaccone. Sa che non può sforare il fatidico 3% sul deficit/Pil, come dimostra l’«avvertimento» di mercoledì da parte della Commissione Ue sul debito alto e la bassa competitività, ma continua a regalare 10 miliardi di euro sul taglio del cuneo fiscale; 9 miliardi per il «Naspi», il sussidio contro la disoccupazione che ha lo stesso nome di un idrante ed esclude 1/3 dei senza lavoro attuali; 2 miliardi per l’edilizia scolastica e un non meglio precisato «piano casa». «Una cosa è cercare forme di avvicinamento al paese, un’altra è il culto della personalità» ha detto, fulminante, Camusso.

Premessa per bocciare la politica degli annunci su twitter di Renzi: i 5 miliardi di euro che vuole stornare dall’ancora riservata spending review a favore del taglio del cuneo fiscale «è una misura ancora lontana dall’essere uno choc sull’economia. Era già insufficiente a dicembre e lo è anche oggi». Camusso si augura che il «contratto unico» previsto dal «Jobs Act» non sia un nuovo contratto precario. Corso Italia chiede «un sistema di ammortizzatori sociali universali», quello che il «Naspi» non è, visto che riguarda al momento solo chi ha la cassa integrazione in deroga e chi ha l’Aspi in scadenza. È un segnale: la Cgil potrebbe perdere la pazienza.

Renzi non ci sta e ha abbandonato l’equilibrismo che lo ha portato ad un accordo sulla legge elettorale straordinariamente ambiguo, per usare un eufemismo, e ha dissotterato l’ascia dell’orgoglio nazionale: «Basta con il costante refrain italiano per cui si dipinge l’Europa come il luogo dove veniamo a prendere i compiti da fare a casa – ha detto ieri a Bruxelles per il Consiglio europeo straordinario sull’Ucraina – l’Italia sa perfettamente cosa deve fare e lo farà da sola per il futuro dei nostri figli». Il presidente del Consiglio ha ribadito che la priorità per l’Italia è «lavoro e crescita, crescita e lavoro». Su questi temi ha chiesto di «portare pazienza» e di aspettare l’aurora di mercoledì.

Non è facile tuttavia portare pazienza alla luce del declassamento preventivo in nome dell’austerità, un regime che mal si concilia con il sogno di efficienza e velocità venduto dal primo cittadino premier. Il falò delle sue velleità potrebbe spegnersi davanti alla necessità, da tempo ventilata, di una manovra finanziaria extra da 12-13 miliardi di euro.

Un’ipotesi respinta da Fabrizio Saccomanni, che ieri è intervenuto come difensore d’ufficio del vecchio governo Letta (bocciato sonoramente dalla Commissione Ue): «Escludo nel modo più assoluto che vi siano buchi nei conti e che ci sia bisogno di manovre correttive». Per Saccomanni il Pil all’1% per il 2014 è «un target ambizioso, ma realistico». Qualcuno si è premurato dal Tesoro di confermare ipotesi: «Un corposo piano di misure per favorire la crescita con particolare attenzione alla creazione di posti di lavoro». La soluzione è quella suggerita da chi immagina la possibilità di un’«austerità dolce»: agire sul denominatore, cioè sul Pil, per abbassare il rapporto tra debito pubblico e Pil che ha sfondato il record del 132,6%, il livello più alto dal 1990. Il problema di Renzi è che, al momento, la crescita da prefisso telefonico prevista per il 2014 (0,6%, al ribasso) non produrrà nuova occupazione, né permetterà di aumentare i consumi, o di rilanciare la domanda interna.

In una nota diffusa ieri dall’Associazione Bruno Trentin e dal CER (Centro Europa Ricerche) si ricorda che a fine 2013 la riduzione cumulata del potere di acquisto, rispetto al 2007, aveva raggiunto l’11%. Poi lo scenario-incubo per Renzi: per il biennio 2014-15 si prevede un’ulteriore flessione dell’1%. Solo nel 2016, questa caduta si attenuerebbe, ma non per tutti. L’ipotesi di agire sul denominatore è inevitabile, ma su queste basi il denominatore rischia di girare a vuoto.

A leggere le dichiarazioni rilasciate ieri dal presidente della Bce Mario Draghi al termine del direttivo della Banca centrale, questo è lo scenario più probabile: c’è la possibilità di una «minore ripresa» della domanda interna. Questo spingerebbe un paese come l’Italia ad un «rallentamento nell’attuazione delle riforme strutturali». Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che ben conosce il problema della crescita senza occupazione, visto che la tesi l’ha formulata lui da capoeconomista dell’Ocse, ha riproposto le privatizzazioni del piano «Destinazione Italia». In un’intervista a Il sole 24 ore di ieri Padoan le ritiene necessarie «per aggredire le cause di fondo della debole competitività delle imprese». Il debito va abbattuto «rafforzando il programma di privatizzazioni». È lo stesso programma di Letta e di Monti. Un programma che non ha convinto gli austeri censori di Bruxelles.