Giovanni Anceschi è tra protagonisti di punta dell’arte cinetica e programmata che ebbe moltissimi sostenitori nell’avanguardia artistica italiana, soprattutto a Milano, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60. Dopo numerosissime esperienze in Italia e all’estero, dapprima come studente poi come didatta e organizzatore culturale, è tornato ad esporre in pubblico e alla galleria Tega di Milano fino al 18 febbraio prossimo è possibile vedere le sue ultime opere.

La mostra lascia spazio anche a una riflessione storica, attraverso la riproposizione di alcuni lavori storici come Quadro Clessidra del 1959, che nel gennaio dell’anno successivo ebbe il battesimo espositivo alla Galleria Pater all’interno di Miriorama 1, segnando il debutto ufficiale del Gruppo T. La conversazione che segue, avvenuta davanti all’oscillazione temporale che contrassegna la continua interrelazione tra le opere d’oggi e quelle di ieri, tenta di raggruppare per episodi il racconto di una vita consegnata alla comprensione della realtà attraverso lo studio dell’arte e l’espansione progressiva e scientifica della società. Senza filtri Anceschi entra subito in argomento: «Possibilità Liquide oggi alla galleria Tega è la mia prima vera personale autonoma. In realtà, una prima volta ci fu moltissimi anni fa con Miriorama 5, quando andavo esponendo con il Gruppo T: eravamo tutti molto giovani. Io sono del 1939, mentre Boriani è del ’36. Gianni Colombo e Gabriele De Vecchi erano del ’38 e ’37: purtroppo sono mancati il primo troppo presto nel 1993. Gabriele invece nel 2011».

Grazia Varisco non era con voi?

Grazia Varisco si unì al gruppo pochissimo tempo dopo.

In quegli anni a Milano, grazie alla sua felice posizione geografica e alla capacità produttiva di assorbire qualsiasi nuova istanza creativa, peraltro in un periodo fecondo sia per l’arte sia per la cultura in generale – teatro, case discografiche, editoria – nascevano movimenti, anche sull’onda di suggestioni europee, soprattutto tedesche con gli artisti del gruppo Zero, si scrivevano manifesti, gli stessi artisti aprivano gallerie, locali d’avanspettacolo, jazz e cabaret, c’era desiderio di unirsi e confrontarsi con tutto. In prospettiva è sembrato un voler partire da capo, dopo le fatiche della «ricostruzione» e del «miracolo economico».

Allora a Milano poteva accadere di tutto. Le suggestioni erano le più molteplici e disparate. Anche gli artisti più anziani, appartenenti alla generazione precedente come Fontana, erano felici di poter scoprire e parlare con noi, giovani, poco più che ragazzi. Poi c’erano personaggi come Piero Manzoni che erano già molto più avanti di noi; però è stato il Gruppo T a costruire la Galleria Azimuth. Ero più vicino a Castellani che a Manzoni con cui litigavamo, ma eravamo pure coscienti sia della sua genialità sia della sua internazionalità, anche rispetto a Fontana. Usavamo un linguaggio particolare. Fontana «era avanti», Pompeo Borra «era indietro». Avevamo costruito delle parole d’ordine.

Tuo padre era Luciano Anceschi, filosofo, critico letterario, fondatore del Verri, scopritore di poeti, sistematore raffinato di movimenti e linee poetiche novecentesche, dalla lombarda ai Novissimi. Com’era vivere nella sua casa?

Ho avuto molta fortuna, dovrei usare però un’altra parola, che inizia per «c». La mia casa era un porto di mare. Ci passavano tutti, artisti, poeti, filosofi, critici. Studio con Paci che m’introduce alla conoscenza di Husserl; un altro maestro a cui si guarda è Banfi. Mio padre aveva molti amici, ma fu mia madre, Maria, insegnante di latino e faceva ripetizioni – ricordo anche a Enzo Jannacci che viveva nel nostro stesso palazzo ed era un pochino asino nella materia quanto già geniale nella musica – insomma fu lei per prima a portarmi giovinetto a vedere mostre e a farmi amare l’arte. Anche se già facevo parte del Gruppo T, fu Gillo Dorfles, amicissimo di mio padre, a farmi fare domanda d’ammissione a una Scuola di Ulm, erede del Bauhaus e diretta da un sudamericano, Tomas Maldonado. Mi disse lì «si fa il design». Un’altra fortuna che ha successivamente indirizzato la mia carriera sia artistica sia di docente in varie università.

Nel manifesto di Miriorama 1 si legge nella dichiarazione: «ogni aspetto della realtà, colore, forma, luce, spazi geometrici e tempo astronomico, è l’aspetto diverso dello Spazio-Tempo o meglio: modi diversi di percepire il relazionarsi fra Spazio e Tempo».

Già, la T nel nome del nostro gruppo indicava proprio il «Tempo» e volevamo poi come abbiamo fatto, occuparci anche dello «Spazio». Arrivammo a decidere di usare solo la T e far cadere la S perché Gruppo ST ci sembrava troppo pretenzioso e da goliardi che eravamo pensavamo che ci avrebbero chiamato Gruppo «Stronzi». Passati 50 anni da allora, posso dire che inventammo moltissimo ciò che ancora non esisteva, anticipando il futuro. Boriani ad esempio inventò il pixel. Oggi che quella tecnologia pensata è diventata realtà mi sono divertito a sperimentare su un’app per iphone4 i risultati di allora. Ora che quel modello è fuori produzione sto cercando di recuperare quella memoria e aggiornarla.

Tale componente di gioco è fondamentale nell’individuazione sia dei maestri sia delle vostre ricerche. C’è qualcosa che richiama alla memoria il Futurismo.

Amavamo molto il Futurismo, di come si erano dati una struttura, un’organizzazione e poi tra noi per divertimento c’erano i balliani ed io ero tra questi e i boccioniani capeggiati da Boriani. Ci piaceva molto il simbolismo e il divisionismo, Pellizza da Volpedo era tra questi. Ma poi venne Munari e fu per noi una scoperta fondamentale che influenzò molto il nostro lavoro. Soprattutto, tornando alla dichiarazione citata e riguardo le possibilità di far interagire, in modi semplici o complessi, l’opera con il pubblico. Con Boriani si lavorava di continuo e con un rigore scientifico serissimo, dato dalla tecnologia dell’epoca, alla creazione di tali situazioni.

L’esperienza con il Gruppo T non viene archiviata, ma prima vai a studiare ad Ulm, torni e parti per l’Algeria, e nel paese nordafricano ci resti per circa tre anni…

Fu un periodo bellissimo. Politicamente non eravamo ingaggiati, ma posizionati a sinistra. Stavo maturando un pensiero comunista, terzomondista, complesso e nemmeno tanto per scherzo oggi mi piace dire che io in Africa ci sono andato davvero come il «Che». Lui in Angola, io in Algeria e lì lavorai duramente con amici provenienti da Ulm. Creammo un laboratorio di grafica e di comunicazione visiva che mi servirà in seguito quando – ed è qui che la casualità, la fortuna come si vuol chiamare, entra di nuovo in gioco – con la chiamata di Argan e l’istituzione di corsi superiori universitari di disegno industriale e comunicazioni visive, tornai in Italia e a Roma. Qui, entrai grazie a Nanni Balestrini in Potere Operaio e conobbi Toni Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone. Progettai con Fabio Bonzi la testata e disegnai la gabbia grafica del giornale.

Nella lunga teoria di nomi e spostamenti, arrivi a insegnare alla facoltà di urbanistica dell’università di Venezia, e poi a Milano, nel frattempo lavori con amministrazioni pubbliche e di pari passo continui a sperimentare contaminando i tuoi lavori anche con la poesia visiva.

A Venezia incontro un altro maestro, Carlo Doglio, amico di Carlo Levi, urbanista anarchico che lavorò con Olivetti. Ma, unisco anche altre esperienze cercando di elaborare un linguaggio nuovo che sommi l’artista, il formatore, il pedagogo e il designer e che mi ha portato ad essere ciò che io sono.